La Corte di Cassazione ha più volte
ribadito che l’azione tendente ad ottenere l’equa riparazione è di natura
indennitaria e non risarcitoria.
Ciò significa che il diritto all'equa
riparazione non richiede l’accertamento di un illecito, né presuppone la
verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente: esso è
invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6 della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo, cioè di un evento di per sé lesivo del diritto della persona alla
definizione del suo procedimento in una durata ragionevole.
Inoltre, la funzione risarcitoria del
danno per il mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo si
distacca dallo schema del risarcimento da fatto illecito, e deve essere correttamente
ricondotta nell’ambito delle fattispecie indennitarie compensative di danni
prodotti nell’esercizio di attività lecite (Cass. 18/3/2003 n. 3973).
Dall’esame delle pronunce della
giurisprudenza di legittimità, emerge una responsabilità di tipo oggettivo del
Ministero resistente, il quale ha violato il termine ragionevole di durata del
procedimento.
In sostanza, per attribuire tale
forma di responsabilità al Ministero, non occorre provarne la colpa ex art.
2043 cc, ma è sufficiente provare il dato oggettivo del tempo in eccesso
trascorso dall’inizio del procedimento.
Il presupposto della responsabilità
del Ministero resistente risiede nella violazione del termine di durata del
procedimento, che non è rigidamente predeterminata, ma va desunta anche con
ricorso ai criteri indicati nell’art. 2 L. 89/2001: comportamento delle parti,
del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a contribuire
alla definizione del processo.
Infatti, anche le cause complesse e
quelle in cui le parti abbiano tenuto un comportamento defatigatorio
soggiacciono alla norma che ne impone la definizione in un tempo ragionevole,
in quanto, secondo un principio enunciato dalla Cassazione a Sezioni Unite, il
giudice deve fare fronte alla complessità del caso con un più risoluto ed
incisivo impegno, ed al comportamento defatigatorio delle parti con
l'attivazione dei rimedi all'uopo previsti dal codice di procedura civile.
Dunque, il dato fondamentale da
assumere a base dell'accertamento della violazione è quello, di natura
oggettiva, costituito dalla durata del processo, sul quale possono incidere i
criteri indicati nell'art. 2, senza peraltro eliminare del tutto la rilevanza
del lungo protrarsi del processo (Cass. n. 8600/2005; Cass. SS. UU., n. 1338
del 2004).
Ai fini della responsabilità dello
Stato, il criterio della durata massima del procedimento si dovrebbe
armonizzare con un metro di scansione temporale interna del procedimento che
fissa in tre mesi la lunghezza del rinvio ragionevole (Corte appello Firenze,
25 gennaio 2002).
A proposito dei rinvii che,
nell’ambito di un processo, siano stati chiesti dalle parti, è necessario
evidenziare che, in tema di valutazione della ragionevole durata del processo,
non tutto il lasso di tempo intercorso tra una udienza e l’altra può essere
imputato al comportamento della parte che abbia chiesto il rinvio, dovendo il
giudice adito in sede di equa riparazione verificare se l’entità del rinvio sia
ascrivibile anche a concorrenti cause dell’organizzazione giudiziaria (Cass.
30/03/2005 n. 6713; Cass. 7/2/2004 n. 6856).
Per la precisione, ai fini
dell'accertamento della durata ragionevole del processo, a fronte di una
cospicua serie di rinvii chiesti dalla parte e disposti dal giudice, si deve
distinguere tra tempi addebitabili alla parti e tempi addebitabili allo Stato,
individuando la durata irragionevole comunque ascrivibile a quest'ultimo,
soprattutto quando l'intervallo fra le udienze sia considerevole (Cass.
20233/2008).
A tal proposito, la Suprema Corte ha
chiarito che “in caso di non ragionevole durata del processo, ove si richieda
il risarcimento del danno non patrimoniale subito, la natura dello stesso rende
plausibile sia il suo accertamento mediante il ricorso a presunzioni e a fatti
notori, sia la liquidazione con valutazione equitativa, a norma dell’art. 1226
cc, atteso che preoccupazioni, tensioni e disagi della persona fisica non sono
suscettibili di una facile dimostrazione diretta che può, dunque, essere
desunta anche in via indiretta dalla deduzione dell’insieme delle circostanze
di fatto del caso concreto allegate e provate o, comunque, emergenti dagli
atti” (Cass. 24/10/2003 n. 16047).
Le Sezioni Unite della Suprema Corte,
conformemente ai principi elaborati in materia dalla Corte di Strasburgo, hanno
precisato che, allorquando venga accertata la violazione del termine
ragionevole di durata del procedimento, il danno non patrimoniale deve
presumersi esistente, a meno che, per la particolarità della fattispecie, possa
rivelarsi inesistente.
La Corte d'Appello di Napoli (13
dicembre 2001) ha ritenuto che è indubbio che la lunga attesa della definizione
di un qualsiasi giudizio determini nel cittadino stanchezza, sfiducia nella
giustizia e più in genere nelle istituzioni, senso di impotenza e, quindi, in
definitiva uno stato d'animo negativo suscettibile di ristoro in termini di
danno morale ai sensi del disposto di cui all'art. 2 comma 1 della l. n. 89 del
2001, da liquidarsi in via equitativa.
In buona sostanza, una volta
accertata la violazione deve, di regola, considerarsi in re ipsa la prova del relativo pregiudizio, nel senso che detta
violazione comporta nella normalità dei casi anche la prova che essa ha
prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale (Cass.
16/2/2005 n. 3118).
Pertanto, in assenza di situazioni
particolari che si rivelino presenti nel singolo caso concreto, il danno non
patrimoniale non può essere negato alla persona che ha visto violato il proprio
diritto alla durata ragionevole del processo.
Tanto anche perché l’equa riparazione
riconosciuta dalla legge 89/2001 è un diritto non al risarcimento del danno, ma
un indennizzo: di conseguenza, rimane irrilevante ogni eventuale riferimento
all’elemento soggettivo della responsabilità (Cass. Sez. Un. 27/11/2003-26/01/2004
n. 1339).
Inoltre, ai fini del riconoscimento
del diritto all’equa riparazione, la parte privata ricorrente non deve provare
il danno morale, trattandosi di conseguenze che normalmente si verificano
secondo l’id quod plerumque accidit
(Cass. 29/03-11/05/2004 n. 8896): una volta accertata la sussistenza della
violazione del termine di ragionevole durata del processo, la parte che assume
di aver subito un danno non patrimoniale in conseguenza della eccessiva durata
del processo, non è tenuta a fornire specifica prova dello stesso, atteso che,
secondo la CEDU, il danno non patrimoniale (da identificarsi col patema
d’animo, con l’ansia, con la sofferenza morale causate dall’esorbitante attesa
della decisione), a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente,
e cioè di regola per effetto della violazione della durata ragionevole del
processo, per cui deve ritenersi presente secondo l’id quod plerumque accidit senza bisogno di alcun sostegno
probatorio (Cass. 12/08/2005 n. 16885).
In definitiva, il riconoscimento del
processo come causa di ansia, di stress e di dispendio di tempo ed energie
suscettibile di dar luogo al risarcimento delle parti che lo abbiano
irragionevolmente subito è da ritenere principio d’ordine costituzionale
immediatamente precettivo (Ved. Cass. Sez. Un. 23/12/2005 n. 28507).
Per quanto riguarda la misura
dell’indennizzo, l’art. 2 bis della legge Pinto, così come modificato dal DL
83/2012, stabilisce che il giudice liquida una somma di denaro compresa tra un
minimo di 500,00 euro ed un massimo di 1.500,00 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che
eccede il termine ragionevole di durata del processo.
Il giudice determina l’indennizzo in
base all’art. 2056 cc, tenendo conto dell’esito del processo nel quale si è verificata la
violazione del termine ragionevole (cd giudizio presupposto); del comportamento
del giudice e delle parti; della natura degli interessi coinvolti; del valore e
della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni
personali della parte.
La misura dell’indennizzo, anche in
deroga al comma 1, art. 2 bis, comunque, non può essere superiore al valore
della causa o al valore del diritto accertato dal giudice: pertanto,
l’indennizzo potrebbe essere anche inferiore a 500,00 euro.
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