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martedì 22 aprile 2014

PRESTITO AL CONSUMO, INTERESSI DI MORA E CLAUSOLE VESSATORIE



Le società finanziarie stipulano con la loro clientela dei contratti di finanziamento, normalmente denominati di credito al consumo o piccoli prestiti.


Ebbene, queste società, di solito, inseriscono nei loro contratti, che normalmente sono dei  prestampati, delle clausole che prevedono il pagamento degli interessi di mora in caso di ritardo nel versamento delle rate.


Ebbene, secondo la Corte di Cassazione (Sent. N. 23273/2010) queste clausole sono da considerarsi vere e proprie clausole penali, e, come tali, soggette alla disciplina dell’art. 33, comma 2, lett f) del DL 6/9/2005 n. 206 (Codice del Consumo), secondo il quale si presumono vessatorie, fino a prova contraria, le clausole che impongono al consumatore (in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento) il pagamento di una somma a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente di importo manifestamente eccessivo.


Fra l’altro, nei contratti prestampati predisposti dalle società finanziarie (cd formulari), queste ultime devono provare che la clausola è stata oggetto di specifica trattativa con il consumatore, ai sensi dell’art. 34, ultimo comma, DL 206/2005.


In tali circostanze, le clausole vessatorie sono da considerarsi nulle, mentre il contratto rimane valido per il resto, e le somme eventualmente corrisposte a titolo di interessi di mora devono essere restituite (Cfr. Tribunaledi Cremona, sent. 24/10/2013).


lunedì 14 aprile 2014

LEGGE PINTO: CASI PARTICOLARI



Persone giuridiche.
Secondo la giurisprudenza della CEDU, i principi in materia di equa riparazione a tutela delle persone fisiche valgono anche per le persone giuridiche e, più in generale, per i soggetti collettivi, per i quali il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, non diversamente da quanto avviene per le persone fisiche, si pone quale conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione CEDU, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri (Cass. 13504/2004; Cass. 13163/2004; Cass. 15093/2004; Cass. 3396/2005; Cass. 8604/2007).


Persone giuridiche pubbliche.
La Corte di Cassazione ha ritenuto che gli enti pubblici, invece, non abbiano diritto all’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo (Sent. n. 21326/2012): il giudice nazionale, per quanto possibile, deve interpretare ed applicare il diritto interno conformemente alla Convenzione ed alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr. Cass. SS.UU. n. 1340/04; Cass. n. 21403/05; Cass. n. 13657/07; Cass. n. 2371/11); ebbene, l'art. 34 della CEDU esclude dal novero degli aventi diritto le organizzazioni non governative, ossia gli enti pubblici, ed in generale ogni ente o articolazione amministrativa pubblica che, in quanto tale, detiene o esercita un pubblico potere.


Contumacia.
Sempre secondo la Cassazione, il contumace ha diritto al riconoscimento dell’equa riparazione, in quanto la scelta della contumacia può derivare dalla più varie ragioni, anche diverse dall’indifferenza per il risultato e per i tempi della controversia, come, ad esempio, la convinzione della totale plausibilità o, al contrario, della assoluta infondatezza delle ragioni avversarie, che possono far apparire inutile affrontare le spese occorrenti per contrastarle, costituendosi in giudizio (Cass. SS. UU. 14/01/2014 n. 585). Quindi, anche il contumace ha il diritto di ottenere, in tempi ragionevoli, la conclusione del giudizio. Infatti, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo attribuisce tale diritto ad ogni persona, mentre la legge 89/01 assicura l’indennizzo a chi ha subito un danno.


Condominio
Il condominio è privo di personalità giuridica, in quanto trattasi di ente di gestione delle cose comuni; pertanto, l'amministratore può agire in virtù della sola delibera assembleare, anche non totalitaria, a tutela della gestione delle stesse, mentre, per quanto concerne i diritti che i condomini vantano unicamente uti singuli, è necessario lo specifico mandato da parte di tutti i condomini (Ved. ex plurimis: Cass. 26/4/2005, n. 8570). … non vi è dubbio che il diritto all'equo indennizzo per la irragionevole durata di un processo non spetti all'ente condominiale, che è preposto unicamente alla gestione della cosa comune in quanto l'eventuale patema d'animo conseguente alla pendenza del processo incide unicamente sui condomini che quindi sono titolari uti singuli del diritto al risarcimento (Cass. 27 maggio - 23 ottobre 2009, n. 22558).


venerdì 4 aprile 2014

LEGGE PINTO: IL PROCEDIMENTO



La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al Presidente della Corte d’Appello del distretto in cui ha sede il giudice competente, ai sensi dell’art. 1 cpp, a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto, relativamente ai gradi di merito, il procedimento nel quale si è verificata la violazione del termine ragionevole. 

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con ordinanza n. 6306 del 16/03/2010, ha precisato che la competenza deve essere determinata con riguardo al giudice di merito dinanzi al quale il procedimento è iniziato. 

Dopo la riforma del 2012, come si vedrà più avanti, non è più possibile proporre ricorso durante la pendenza del procedimento presupposto.

Il ricorso va proposto nei confronti:  

1)      Del Ministero della Giustizia, quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario;

2)      Del Ministero della Difesa, quando si tratta di procedimenti del giudice militare;

3)      Del Ministro dell’Economia e delle Finanze, negli altri casi (es. TAR).

Al ricorso devono essere allegati i seguenti atti in copia autentica:

1)      L’atto introduttivo del processo presupposto (atto di citazione o ricorso), tutte le comparse e le memorie successive (comparsa di costituzione e risposta, memorie istruttorie, conclusionali, memorie di replica);

2)      I verbali di causa ed i provvedimenti del giudice (ad es., le comunicazioni dei rinvii d’ufficio);

3)      Il provvedimento che ha definito il giudizio.

E’ consigliabile, anche se non richiesto, allegare la copia del frontespizio del fascicolo d’ufficio, per una maggiore completezza, in quanto questo può essere utile al magistrato per riassumere e valutare, in un solo colpo d’occhio, l’intero processo. 

Come si vede, mentre prima della riforma del 2012 gli atti del processo presupposto potevano essere allegati in copia semplice, ora è necessaria la copia autentica degli stessi (in parole povere … bisogna pagare le marche da bollo!!!).

Il Presidente della Corte d’Appello, o il magistrato designato, provvede sulla domanda di equa riparazione con decreto motivato. Il decreto deve essere emesso entro trenta giorni dal deposito del ricorso. A seguito della riforma del 2012, la causa non viene più decisa dal collegio, ma da un giudice singolo.

Se il giudice ritiene che la domanda non sia sufficientemente giustificata, dispone che il cancelliere ne dia notizia al ricorrente, invitandolo a provvedere all’integrazione della prova. Se il ricorrente non risponde all’invito o non ritira il ricorso, oppure se la domanda non è accoglibile, il giudice la rigetta con decreto motivato.

Se accoglie il ricorso, il giudice ingiunge all’amministrazione (contro cui è stata proposta la domanda) di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando, in mancanza, la provvisoria esecuzione. Nel decreto il giudice liquida le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento.

Se il ricorso è totalmente o parzialmente respinto, la domanda non può essere riproposta, ma la parte può fare opposizione nel temine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento (mediante deposito dell’atto in cancelleria), o dalla sua notificazione.
L’erogazione degli indennizzi avviene nei limiti delle risorse disponibili.

Il ricorso deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva, ossia non più impugnabile. Da questo momento inizia a decorrere il termine di sei mesi di cui all’art. 4 L. 89/2001 entro il quale può essere validamente proposto il ricorso ex legge Pinto.

La Corte di Cassazione (Sent. N. 5895/2009; sent. 22242/2010) ha stabilito che la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (i 46 giorni dal 1° agosto al 15 settembre) deve essere applicata anche al suddetto termine di sei mesi di cui all’art. 4 della cd legge Pinto.

Il ricorso ed il decreto che accoglie la domanda di equa riparazione vanno notificati, in copia autentica, al soggetto nei cui confronti la domanda è proposta,  presso il competente ufficio dell’Avvocatura.

La notifica deve essere eseguita nel termine di trenta giorni dal deposito in cancelleria del provvedimento (decreto di accoglimento).  
Se la notifica non viene effettuata nel suddetto termine, il decreto diviene inefficace e la domanda di equa riparazione non può essere più riproposta.

La notifica del ricorso e del decreto comporta acquiescenza al decreto da parte del ricorrente e, pertanto, rende improponibile l’opposizione.  

Il decreto che accoglie la domanda viene comunicato al procuratore generale della Corte dei Conti, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di responsabilità, nonché ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati al procedimento.

Opposizione
Contro il decreto che ha deciso sulla domanda di equa riparazione può essere proposta opposizione nel termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento ovvero della sua notificazione.

L’opposizione si propone con ricorso alla Corte d’Appello che ha emesso il decreto. La Corte provvede in camera di consiglio, e del collegio non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento impugnato.

L’opposizione non sospende l’esecuzione del provvedimento, ma il collegio, se ricorrono gravi motivi, può sospenderne l’efficacia esecutiva.

La Corte, entro quattro mesi dal deposito del ricorso, pronuncia decreto impugnabile per cassazione, immediatamente esecutivo.

Con il decreto che definisce il giudizio (sia nella prima fase che in quella, eventuale, della opposizione) il giudice, se la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile o manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento di una somma di denaro, da 1.000,00 a 10.000,00 euro in favore della Cassa delle Ammende.