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martedì 6 novembre 2012

TRIBUNALE DI ROMA - SEZIONE XIII CIVILE - ORDINANZA 1/4/2011



TRIBUNALE DI ROMA

SEZIONE XIII CIVILE

riunito in camera di consiglio e così composto:

dott.ssa Franca Mangano                                Presidente
dott. Maurizio Maselli                          Giudice Rel.
dott.ssa Annalisa Chiarenza                             Giudice

a scioglimento della riserva di cui a verbale in data 1/4/2011 in ordine al preliminare giudizio di ammissibilità dell’azione avviata ex art. 140 bis D. LGS. 206/05 da Codacons in proprio e nella qualità di mandataria di ************* nei confronti della B.A.T. Italia SpA

Osserva

Parte attrice ha instaurato la presente controversia al fine di sentir accertare la responsabilità della convenuta per aver esercitato un’attività pericolosa, quella della produzione e della vendita di sigarette, senza adottare tutte le misure idonee ad evitare conseguenze pregiudizievoli (art. 2050 cc) a carico dei proponenti ed aver quindi causato agli stessi danni non patrimoniali consistenti nella dipendenza da nicotina, quale patologia del sistema nervoso, nonché nel timore concreto di ammalarsi di altre patologie correlate al fumo (art. 2059 cc) e danni patrimoniali consistenti nella spesa utile per l’acquisto quotidiano di sigarette indotto dalla dipendenza.

La convenuta ha preliminarmente dedotto l’inammissibilità dell’azione di classe per essere i fatti allegati anteriori al 15.08.2009, per carenza di legittimazione attiva della parte istante e per difetto di identità dei diritti individuali tutelabili.

Quanto al primo profilo, va osservato che il testo dell’art. 49, comma 2°, della legge 23.07.2009 n. 99 chiarisce che le disposizioni dell’art. 140 bis del codice del consumo si applicano agli illeciti compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge; di conseguenza l’azione di classe può essere intentata soltanto con riguardo agli illeciti compiuti successivamente al 15.08.2009 (la legge anzidetta è stata infatti pubblicata sulla G. U. del 31.07.09 n. 176).

Tale circostanza non esclude peraltro l’ammissibilità dell’azione proposta dal Codacons, atteso che i comportamenti commissivi ed omissivi imputati alla convenuta, ancorché abbiano avuto inizio nel periodo pregresso, in concomitanza con l’assunzione del fumo da parte di ciascuno degli istanti, sono proseguiti in epoca successiva al 15.08.09 quale illecito permanente, e lo stato di dipendenza di costoro dalla nicotina ha subito un grado elevato di continuità nella forma di patologia cronica.

Quanto alla seconda eccezione va rilevato che l’art. 140 del Codice del Consumo stabilisce una legittimazione delle associazioni dei consumatori ed utenti a tutela di interessi collettivi per la richiesta di inibitoria dei comportamenti lesivi, per l’adozione di misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate anche mediante la pubblicazione del provvedimento.

Si tratta in questo ultimo caso di misure riparatorie a rilievo generale destinate ad incidere sulle posizioni di una pluralità indiscriminata di soggetti unita dalla qualifica di consumatori.

Le istanze risarcitorie per equivalente degli asseriti danni personali non patrimoniali nella descritta accezione di danno biologico, esistenziale, morale e patrimoniale, anche riflesso, promosse dalla associazione attrice vanno rigettate, per tali contenuti non risultando applicabile la richiamata normativa né potendosi ipotizzare, al di fuori di ogni previsione di legge, sostituzione alcuna della prima nell’esercizio del diritto del singolo danneggiato (art. 81 cpc).

Ed invero, nel caso di specie la pronuncia all’esito del giudizio sull’azione di classe non può prescindere dall’accertamento di tutti gli elementi delle fattispecie risarcitorie o restitutorie, compresa la sussistenza o l’interruzione del nesso di causalità giuridica, come tale incompatibile con la tutela cumulativa dei diritti individuali dei consumatori, superando le questioni individuali da accertare le eventuali questioni comuni e impedendo le caratteristiche dei diritti azionati una liquidazione dei danni omogenea ed unitaria per tutte le pretese azionate.

Va quindi affermato il difetto di legittimazione attiva del Codacons quale portatore di interessi propri.

A diversa conclusione è lecito pervenire in ordine a ciascun componente della classe, potendo questi agire per il tramite delle associazioni cui dà mandato o di comitati cui partecipa, secondo il meccanismo della rappresentanza processuale (art. 140 bis, comma 1, codice consumo).

In tale evenienza, la citata disposizione non crea nuovi diritti, ma disciplina soltanto un nuovo mezzo di tutela, l’azione di classe, che si aggiunge alle azioni individuali già spettanti ai singoli consumatori o utenti.

In sede di ammissione il Tribunale è chiamato a valutare la proponibilità della domanda ai sensi del comma 6 dell’art. 140 bis sotto il profilo della omogeneità dei diritti individuali dei consumatori ed utenti e la legittimazione dell’utente si pone in termini di coincidenza del suo interesse con quello della classe, essendo egli portatore del medesimo diritto individuale omogeneo di cui sono titolai gli appartenenti alla classe.

All’uopo rilevano tre circostanze:

- la domanda non deve apparire manifestamente infondata nel merito;

- non sussistono conflitti di interessi;

- sussiste un interesse collettivo meritevole di tutela.

L’esito negativo di una soltanto di queste tre verifiche rende inammissibile l’azione collettiva. E’ opportuno quindi esaminare più in dettaglio i tre requisiti di ammissibilità della domanda.

1) Il vaglio della non manifesta infondatezza.
Il giudizio di manifesta infondatezza nel merito della domanda come proposta non deve essere confuso con una anticipazione della sentenza, nè come una preistruttoria: come in tutti i casi in cui la legge richiede un giudizio di non manifesta infondatezza, sarà sufficiente accertare il fumus della pretesa attorea.

Poiché il relativo accertamento deve essere compiuto in limine litis, e quindi in una fase in cui le parti non hanno ancora consumato il potere di produrre documenti e chiedere mezzi di prova (ai sensi dell’art. 183, comma 6, cpc), il giudizio sulla non manifesta infondatezza riguarderà di norma la prospettazione in diritto posta a fondamento della pretesa, non la veridicità dei fatti costitutivi di essa, a meno che quest’ultima non sia di per sé ragionevolmente esclusa dalle prove allegate agli atti introduttivi del giudizio.

Orbene, sotto tale profilo va rilevato che inequivocabilmente qualsiasi fumatore è pienamente consapevole sia dei rischi per la salute indotti dal fumo, sia dalla dipendenza da questo creata.

E’ lo stesso comportamento del fumatore sufficiente, in via esclusiva, a determinare l’evento e ciò alla luce delle regole generali in tema di nesso di causalità poste dall’art. 41, comma2, del codice penale, applicabili anche al diritto civile.

Pertanto, tra la produzione e distribuzione delle sigarette e l’evento dannoso si inserisce un fattore assolutamente determinante costituito dal comportamento dello stesso danneggiato, rispetto al quale la vendita del prodotto, pur costituendo un antecedente oggettivamente ricollegabile all’evento, è comunque privo del necessario nesso di causalità immediata e diretta.

Inoltre va escluso, sulla base degli studi e delle conoscenze scientifiche ormai consolidate, che la dipendenza da nicotina determini l’annullamento o la seria compromissione della volontà del fumatore nella forma di costrizione al consumo, tale da inibirgli in modo assoluto qualsiasi facoltà di scelta tra la continuazione del fumo e l’interruzione dello stesso.

La mera difficoltà di smettere di fumare appare, quindi, affatto irrilevante, non potendosi sostenere che il consumatore pienamente informato dei pericoli per la propria salute indotti dal fumo delle sigarette sia nella impossibilità di effettuare una scelta libera e consapevole, ancor più quando sia sorretto da sufficiente motivazione.

Né gli effetti farmacologici della nicotina, alla luce delle ricerche e dei risultati medici e scientifici, sono paragonabili alle droghe pesanti quali l’eroina o la cocaina e di tale influenza sulla volontà del fumatore da renderlo affatto incapace di smettere di fumare.

Ciò è tanto vero, che le statistiche e i rapporti in materia evidenziano una progressiva riduzione del numero dei fumatori, in special modo tra gli uomini con una diminuzione di oltre la metà nel periodo compreso tra l’anno 1957 ( il 65% degli uomini era fumatore abituale) e l’anno 2008 (soltanto il 26,4%).

Alla luce delle pregresse considerazioni appaiono del tutto prive di consistenza le argomentazioni del Codacons concernenti: 1) l’insufficienza delle misure di carattere informativo circa la dipendenza da nicotina come su altri rischi del fumo da tabacco (tumori, cardiopatie); 2) l’eliminazione dalle sigarette della nicotina quale misura efficace alla eliminazione degli effetti da dipendenza; 3) l’incremento da parte delle ditte produttrici della dipendenza dei fumatori dalla nicotina mediante l’aggiunta al tabacco di alcuni additivi (ammoniaca, liquirizia, cacao).

Quanto alla prima asserzione, basterà rilevare che tutti i pacchetti di sigarette recano chiari avvertimenti – il fumo uccide, il fumo crea una elevata dipendenza, il fumo può creare impotenza, ecc. – idonei a rappresentare al fumatore, già a conoscenza dei rischi che il fumo comporta e della difficoltà di smettere di fumare in quanto noti alla società sin dagli anni ’30 a seguito della diffusione di tali notizie mediante mezzi di comunicazione di massa e di divulgazione di conoscenze scientifiche, la potenzialità dannosa dell’uso delle sigarette.

Quanto alla seconda, va osservato che i livelli di nicotina delle sigarette sono individuati dalla legge (D. Lgs. 24.6.2003 n. 184) sulla base dei limiti massimi misurati meccanicamente ed autorizzati dalla direttiva europea 2001/37/CE in materia di prodotti di tabacco e che le sigarette in commercio hanno un contenuto di nicotina che varia da un minimo di 0,1 mg ad un massimo di 1 mg e in tale fascia il consumatore può liberamente scegliere il prodotto più idoneo alle proprie aspettative od esigenze.

L’eliminazione della nicotina dalle sigarette – suggerita dal Codacons quale misura efficace ad eliminare la dipendenza del fumatore – è da un lato irragionevole in quanto volta ad attuare una regolamentazione dell’attività di produzione sostitutiva di quella dello Stato e dall’altro incongruente, in quanto diretta ad attuare l’alterazione delle caratteristiche del prodotto legislativamente definite e lo snaturamento dello stesso.

Inoltre, la eliminazione della nicotina non costituirebbe una misura appropriata, sia per i riflessi sui consumatori che, non ritenendo il prodotto soddisfacente, si rivolgerebbero al mercato del contrabbando, sia perché il fumo rappresenta un comportamento multifattoriale, non dovuto esclusivamente alla nicotina, ma sostenuto da altri fattori psicologici (vedi sul punto relazione della dott. ********** doc. 17 di parte convenuta e relazione del ******* prodotta dall’attrice).

Quanto alla terza argomentazione, va rilevato che l’art. 7 del D. Lgs. n. 184/2003 impone ai fabbricanti di prodotti del tabacco di fornire annualmente al Ministero della Salute e al Ministero dell’Economia e delle Finanze l’elenco degli ingredienti utilizzati con le relative quantità, dati tossicologici, specificandone altresì la funzione e gli effetti sulla salute, ivi inclusi eventuali effetti di dipendenza.

In tale quadro, l’utilizzo di additivi risulta normativamente legittimo; in ogni caso, non sussiste, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, alcuna prova che l’eventuale utilizzo di sostanze additive determini uno stato di dipendenza o renda più difficile il distacco dal fumo.

Del resto, l’utilizzazione degli additivi trova ragion d’essere nell’intento di attribuire al prodotto un sapore specifico e tipizzato, come tale indispensabile perché la casa produttrice sia competitiva sul mercato in presenza di ampia varietà di marche disponibili e perché il fumatore riconosca nel prodotto utilizzato il gusto che individua quella marca di sigarette, di identità e caratteristiche costanti e ripetitive.

In altri termini detti additivi, della più varia natura, riducono la durezza del fumo, la secchezza della bocca e della gola, donando una sfumatura particolare (anche dolce) al fumo, ma non hanno effetti assuefacenti né esplicano alcuna influenza ai fini dell’esaltazione del rapporto di dipendenza del fumatore dalla nicotina.

2) Il vaglio del conflitto di interessi.
Meno agevole è stabilire cosa abbia inteso il legislatore con la formula relativa all’assenza di conflitto di interessi.

Il primo problema posto dalla norma è quello di stabilire tra chi debba sussistere conflitto, al fine di escludere l’ammissibilità della domanda.

Nel silenzio della legge, devono ritenersi ammesse tutte le possibilità, è quindi l’inammissibilità della domanda quando il conflitto sussista:

(a) tra l’attore in senso sostanziale ed il suo avvocato (ad es., l’associazione attrice ha conferito mandato ad un avvocato che stia presiedendo il collegio arbitrale costituito ai sensi dell’art. 140 bis, comma 6, d. lg. 206/05, o per stabilire il quantum debeatur in una azione collettiva di analogo contenuto);

(b) tra l’ente rappresentativo dei consumatori e questi ultimi (ad es., promovimento di azione collettiva nei confronti dell’emittente di strumenti finanziari rivelatisi rovinosi, con conseguente impossibilità per il consumatore di prendere parte ad un vantaggioso arbitrato internazionale);

(c) tra due o più dei consumatori, ovvero due o più gruppi di consumatori aderenti all’iniziativa (ad es., adesione all’azione collettiva proposta nei confronti di una società immobiliare, che abbia alienato più volte la medesima quota di multiproprietà turistica, dei soggetti che hanno acquistato diritti di identico contenuto, e perciò tra loro incompatibili).

Nella controversia in esame non è identificabile alcun conflitto di tale natura.

3) Il vaglio della sussistenza dell’interesse collettivo.
 Della nozione di interesse collettivo, e della sua natura di presupposto della domanda si è già detto. Ci si può dunque in questa sede limitare a sottolineare come proprio la previsione dell’inammissibilità della domanda nel caso di insussistenza dell’interesse collettivo dimostra come non basti l’allegazione di un danno, anche risarcibile, in capo ad uno o più consumatori perché possa essere proposta una azione collettiva, ma è necessaria la sussistenza di quel quid pluris rappresentato giustappunto dall’interesse generale di categoria o di gruppo.

In particolare, va rilevato che l’art. 140 bis, 2° comma, de Codice del Consumo legittima l’azione di classe a tutela di identici diritti spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale.

L’ammissibilità di detta azione si fonda sui principi dell’interesse ad agire, della economia processuale e della effettività della tutela.

Al fine della qualificazione dell’identità dei diritti individuali tutelabili mediante il ricorso a detta azione sono richieste due condizioni: a) che si tratti di diritti che hanno la stessa origine, ovvero nascono da un fatto costitutivo identico; b) che si tratti di diritti il cui accertamento e la cui tutela involgano le stesse questioni di fatto e di diritto.

Quindi, la tutela cumulativa può avvenire soltanto in quei casi in cui, per le caratteristiche della fattispecie sostanziale, la decisione del giudice si può basare esclusivamente su valutazioni di tipo comune, essendo del tutto inesistenti o marginali i temi personali; non già nell’ipotesi in cui le questioni individuali da accertare – accertamento che si pone in termini di presupposto logico giuridico della condanna – superino le eventuali questioni comuni a ciascun consumatore, e le caratteristiche dei diritti azionati impediscano una liquidazione dei danni omogenea ed unitaria per tutte le pretese potenzialmente azionabili.

Questo in quanto l’azione di classe non ha ad oggetto l’interesse collettivo dei consumatori, ma i diritti individuali di costoro al risarcimento dei danni e alle restituzioni, così come chiaramente espresso dal comma 12° della disposizione in esame, per la quale se accoglie la domanda, il Tribunale pronuncia sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’art. 1226 cc, le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione.

In tale evenienza, la pronuncia resa all’esito del giudizio non può prescindere dall’accertamento di tutti gli elementi delle fattispecie risarcitorie o restitutorie, ivi compresa la sussistenza o l’interruzione del nesso eziologico e la valutazione del danno risarcibile.

Ciò chiarito, va osservato che con la domanda oggetto di esame l’attore intende ottenere tutela per una serie estremamente ampia di situazioni tra loro diverse, come documentato dalle tre distinte storie dei fumatori rappresentati dal Codacons, le cui posizioni risultano diversificate, eterogenee e non sussumibili nel medesimo procedimento – aperto all’adesione di tutti gli altri soggetti interessati -, avuto riguardo agli specifici aspetti della sfera comportamentale, psicologica e sociale, riferibile a ciascun consumatore come unica, personale e assolutamente individuale.

In tale contesto, invero, la ricostruzione della storia di ciascun fumatore comporta la disamina di molteplici aspetti e momenti della sua vita – quali l’inizio e le ragioni dell’adesione al fumo, il numero e la marca delle sigarette quotidianamente assunte, lo stato di dipendenza dalla nicotina, la incapacità o la scelta di non smettere di fumare, le conseguenze sulle condizioni di vita di ognuno di essi indotte dal timore di contrarre malattie- come tali non inquadrabili nell’ambito di un accertamento avente ad oggetto diritti individuali assolutamente identici, stante la peculiarità e tipicità della posizione di ogni consumatore.

Siffatta eterogeneità di situazioni impedisce la trattazione congiunta delle vicende riferibili ad ogni singolo consumatore e rende quindi non praticabile la via dell’azione di classe per insussistenza di identità dei diritti individuali di cui si chiede la tutela.

Sussistono giusti motivi, avuto riguardo alla novità ed alla complessità delle questioni oggetto di lite, per dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese di lite.

PQM

Il Tribunale dichiara inammissibili le domande proposte dal Codacons ai sensi dell’art. 140 bis codice consumo nei confronti della B.A.T. Italia SpA con atto di citazione notificato il 31/5/10;

dichiara integralmente compensate tra le parti le spese processuali; ordina la pubblicazione della presente ordinanza, a spese dell’attore, per estratto e per una volta, sul quotidiano Il Corriere della Sera.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio della XIII sezione civile, addì 1/7/2011.

Il giudice est.                                                                                                                         Il presidente

giovedì 30 agosto 2012

TRIBUNALE DI BUSTO ARSIZIO - SENTENZA N. 413/09



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il tribunale di Busto Arsizio, in persona del giudice del lavoro, dott.ssa Franca Molinari, ha pronunziato la seguente

SENTENZA CON MOTIVAZIONE CONTESTUALE

 Nella causa R.G..L. 745/07, avente ad oggetto in ricorso ex art. 442cpc, promessa

***** e da****, in qualità di genitori di ****, difesi e rappresentati dall’avv. **** e dall’avv.****, ed elettivamente domiciliati in Busto Arsizio alla Via **** presso lo studio dell’avv. ****, giusta delega a margine del ricorso in forza di procura a margine del ricorso

RICORRENTE
Contro

MINISTERO DELLA SALUTE,  in persona del Ministro, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Milano, presso la quale è elettivamente domiciliato in Milano , Via Freguglia, 1

CONVENUTO
e

Azienda Sanitaria Locale della provincia di Varese, in persona del Legale rappresentante pt, rappresentata e difesa dall’avv. **** ed elettivamente domiciliata in Busto Arsizio Via**** presso lo studio dell’avv. ****, giusta delega in calce al ricorso notificato dall’avv. ****, ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. ****, via **** n. ** in virtù di procura in calce all’atto notificato di chiamata in causa dal terzo

CONVENUTA

CONCLUSIONI: all’udienza di discussione i procuratori delle parti costituite concludevano come in atti.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il presente  ricorso i genitori di C B hanno convenuto in giudizio il Ministero della Salute e l’ASL di Varese per sentirli condannare alla corresponsione in favore della figlia minore dell’indennizzo di cui alla L. 210 del 25.2.1992, con decorrenza dalla data della domanda amministrativa (28.10.2003) e dell’assegno una tantum di cui alla legge 238/97 con decorrenza dalla data di manifestazione della lesione.

Va preliminarmente affrontata la questione attinente al soggetto legittimato passivo.

La Suprema Corte, mutando un precedente indirizzo, ha recentemente, ripetutamente, affermato come per tutte le istanze proposte ai sensi della L. 210/92, qualunque sia l’epoca della domanda e qualunque sia la data in cui la medesima sia stata trasmessa all’ASL al Ministero della salute, la titolarità del lato passivo del rapporto controverso spetta in ogni caso al Ministero  (da ultimo si veda Cass. 13/10/2009 n. 21704 alle cui motivazioni integralmente ci si riporta).

Deve, pertanto essere dichiarata la carenza di legittimazione passiva dell’ASL convenuta.

Nel merito, per il riconoscimento dell’indennizzo ex lege 210/1992 è necessaria la contemporanea presenza di tre presupposti:

a). l’esistenza di un nesso di causalità fra la somministrazione del vaccino e la menomazione irreversibile dell’integrità psicofisica;

b). l’ascrivibilità della lesione a una delle categorie di cui, alla tab. A annessa al T.U. approvato con DPR 915/78 come sostituita dalla tab. A allegata al DPR 834/81;

c). la presentazione dell’istanza di indennizzo nel termine perentorio di tre anni a decorrere dal momento in cui l’avente diritto risulti avere avuto conoscenza del danno;

Nel caso in esame non è contestata la sussistenza dell’infermità che affligge C B, nè la sua natura e ascrivibilità alla 1a categoria della tab. A allegata al DPR 834/81 e neppure al tempestiva presentazione della domanda amministrava. La  materia del contendere si indentra sulla sussistenza o meno del nesso di causalità (o con causalità) fra l’infermità e la vaccinazione antipolio somministrata a C. il CTU incaricato ha confermato le conclusioni a cui era giunta la commissione medica che ha escluso la sussistenza di tale nesso eziologico.

Ritiene la scrivente di non poter condividere l’opinione negativa espressa accertata e le vaccinazioni somministrate, in ragione delle considerazioni che seguono.

Già con le sentenze 21.4.1977 n. 1476 e 13.5.1982 n. 3013 e poi di recente con la sentenza 21/01/02 n. 632 la Cass. aveva avuto occasione di puntualizzare come l’individuazione del rapporto di causalità che attiene ad un evento lesivo collegato all’esecuzione di terapie mediche o di interventi chirurgici deve essere effettuata, non solo con criteri giuridici, ma anche tenendo conto delle nozioni della patologia medica e della medicina legale, per cui la possibilità teorica di un margine inevitabile di relatività non può, di per sé sola invalidare un accertamento basato sulla corrispondenza di alcune affezioni a un determinato meccanismo causale, in assenza di qualsiasi altra causa patogena.

Inoltre si deve poter tenere conto del fatto che in campo biopatologico, è estremamente difficile raggiungere un grado di certezza assoluta e, pertanto, la sussistenza del nesso causale fra un determinato antecedente e l’evento dannoso ben può essere affermata in base ad un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, soprattutto quando manca la prova della preesistenza della concomitanza o della sopravvenienza di altri fattori determinanti.

È di esperienza comune, infine, come nella realtà medica non accade quasi mai che intervenga un’unica causa nella determinazione di una patologia, accade molto più spesso che il danno sia provocato dal verificarsi di una serie di concause, in altre parole nella eziologia delle malattie i fattori sono spesso plurimi.

Ritiene dunque la scrivente che sia sufficiente la sussistenza del nesso eziologico una “ragionevole probabilità” unitamente alla mancanza di prova di altre (con ) cause determinanti.

Nel caso in esame la perizia di parte ha analizzato la storia clinica di C B e, sulla scorta della connessione logica dei dati e delle conoscenze medico-biologiche più recenti, ha elaborato un giudizio, (di probabilità), in favore della sussistenza del nesso causale fra l’infermità e el vaccinazioni somministratele in data 16.12.1999 e le seguenti reazioni allergico - immunologiche post-vaccinali.

Tale giudizio è, a parere di questo giudice, condivisibile in quanto congruamente motivato e sopportato da una letteratura scientifica. In particolare, il caso è stato valutato rispettando i dati obiettivi, i dati casistici, i dati statistico – epidemiologici e i dati sperimentali.

La malattia ha esordito immediatamente dopo la somministrazione dei vaccini del dicembre 1999 con comparsa della perdita di equilibrio e  regressione del linguaggio e ciò in una situazione antecedente di pieno benessere (criterio cronologico).

La malattia ha sede nell’encefalo dove l’azione del vaccino si è concentrata con meccanismo di tipo allergico – immunitario e la malattia si è manifestata in maniera sistematica, ma come conseguenza di un unico danno in una precisa sede il Sistema Nervoso Centrale (criterio topografico).

La grave entità delle manifestazioni che sono seguite si spiega con la funzione mediatrice che ha avuto il cervello (criterio di efficienza).

La somministrazione di un vaccino in un soggetto predisposto ha scatenato immediatamente una encefalopatia allergico/immunitaria con le manifestazioni seguenti descritte. Ed infine non sono stati individuati altri fattori causali che abbiano giocato un ruolo nella genesi della malattia (criterio di esclusione).

Il quadro clinico si è aggravato in seguito ala ulteriore somministrazione vaccinale con Anti MMR del 15/06/2000, Anti Haemophilus Influenzae tipo B del 22.2.2000 e Anti Polio del 30.1.2001.

La domanda dei ricorrenti relativa all’indennizzo merita, pertanto, accoglimento.

All’importo capitale si aggiunge il pagamento di rivalutazione monetaria e di interessi legali ex art. 2 L. 210/92.

Detta rivalutazione andrà applicata su entrambe le voci dell’indennizzo, giusto il disposto dell’art. 2, commi 1 e 2 della L. 210/92 (in tal senso da ult. Cass. 18109/2007).

Non può invece essere accolta la domanda relativa all’assegno una tantum in quanto i ricorrenti non hanno dedotto (e quindi tanto meno provato) di aver espletato l’iter amministrativo previsto alla legge 229/05 e dal D.M. di attuazione.

La complessità delle questioni affrontate giustifica la compensazione delle spese di lite fra le parti in causa.

La sentenza deve essere dichiarata esecutiva ex art. 447cpc.

P Q M

Definitivamente pronunciando, ogni altra domanda od eccezione disattesa,

dichiara il difetto di legittimazione passiva dell’ASL;

Dichiara, sussistente il diritto di C B a percepire l’indennizzo di cui la L. 210/92 per le patologie della 1acategoria d cui la tab. A allegata al DPR 834/81 e conseguentemente condanna il Ministero della Salute a pagare in favore dei ricorrenti l’indennizzo previsto dall’art. 2, comma 1 L. 210/92 e l’indennità integrativa speciale di cui alla L. 324/59 e successive modificazioni, a fa data dall’1.11.2003, oltre rivalutazione su entrambe le voci dell’indennizzo , e interessi legali sino al soddisfo;

Condanna il Ministero convenuto al pagamento delle spese di CTU liquidate dal giudice.

Dichiara integralmente compensate le spese di lite tra le parti.

Sentenza esecutiva.

Busto Arsizio, 2.12.2009
Il Giudice

dott.ssa franca Molinari

Per gentile concessione dell'avv. Saverio Crea.

lunedì 27 agosto 2012

CORTE DI CASSAZIONE - SENTENZA N. 12930/12



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

PRIMA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROBERTO MICHELE TROIOLA                    PRESIDENTE
Dott. LAURENZA NUZZO                                       CONSIGLIERE
Dott. LINA MATERA                                               REL. CONSIGLIERE
Dott. CESARE ANTONIO PROTO                          CONSIGLIERE
Dott. ANTONIO SCALISI                                        CONSIGLIERE


SENTENZA

Sul ricorso 27438/2006 proposto da condominio Via **** Napoli , in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, *****, presso lo studio dell’avv. ****, rappresentato e difeso dall’avv. ***

Ricorrente

Contro

S A cf ***, elettivamente domiciliato in Via ****, presso lo studio dell’avv. ***, rappresentato  e difeso dall’avv. ****

Contro ricorrente

Avverso la sentenza n. 2266/2005 della Corte d’Appello di Napoli, depositata il 11/07/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/05/2012 dal Consigliere Dott. Lina Matera;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Pierfelice Pratis che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con  distinti atti di citazione del 28/5/1997 e 12/1/1998 S A impugnava le deliberazioni adottate dall’assemblea del Condominio in Napoli Via **** nelle sedute del 29/4/1997 e del 27/11/1997, con le quali era stata rispettivamente deliberata l’installazione dell’ascensore ed approvato il relativo progetto, nonché approvato il progetto esecutivo con il relativo appalto, per una spesa di £. 85.000.000.

L’attore assumeva la nullità di entrambe le delibere, rilevando che la parziale occupazione del primo cortile mediante l’impianto di ascensore violava il godimento dei singoli condomin sul medesimo  cortile e sulla guardiola, ledeva il decorso architettonico dello stabile ed arrecava grave pregiudizio alla propria unità immobiliare, sottraendole aria e luce, violando le distanze, compromettendone la stabilità e la sicurezza.

Deduceva, inoltre, la mancanza del quorum richiesto dalla legge.

Nel costituirsi, il condomini contestava la fondatezza delle domande attrici e en chiedeva il rigetto.

 A seguito della riunione dei due giudizi, con sent. del 21/4/2010 il tribunale di Napoli rigettava entrambe le domande.

Avverso la predetta decisione proponeva Appello lo S.

Con sentenza depositata in data 11/7/2005 la Corte d’Appello di Napoli, in accoglimento del gravame, dichiarava la nullità delle delibere impugnate, rilevando che l’installazione dell’ascensore nel primo cortile, proprio a ridosso della finestra dell’attore, aveva comportato una grave lesione del diritto dominicale esclusivo dello S e un sensibile deprezzamento della sua unità abitativa.

Per la cassazione di tale sent. ricorre il Condominio, sulla base di due motivi.

Lo S. resiste con controricorso.


MOTIVO DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artic. 1120, 1136 e 1137 cc, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso  e l’omesso esame di documentazione decisiva.

Sostiene che l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il Condominio non avrebbe dimostrato l’impossibilità di installare l’ascensore nel secondo cortile, risulta smentita per tabulas dai rilievi fotografici prodotti dal convenuto, del tutto ignorati dalla Corte d’Appello, nonché dalla relazione di consulenza tecnica d’ufficio, nella quale il CTU ha evidenziato l’impossibilità di posizionare l’impianto di ascensore nel secondo cortile. Aggiunge che lo stesso consulente ha negato l’esistenza  di rumori particolari connessi al funzionamento ed all’uso dell’ascensore, e che, quanto alla luminosità, la Corte d’Appello non ha tenuto conto delle foto scattate all’interno dell’ascensore.

Il motivo è infondato.
Le censure mosse nella prima parte investono un’argomentazione del giudice del gravame che non assume alcuna incidenza ai fini della decisione, la quale, a prescindere dal rilievo secondo cui il Condominio non aveva’neppure esaurientemente motivato sulla indispensabilità dell’impianto sul primo anziché sul secondo cortile’, risulta basata sull’acclarata compromissione del diritto dominicale dell’attore sul proprio appartamento, derivante dalla installazione dell’impianto di ascensore.

Orbene, costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censuri una argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam e che, pertanto, non costituisce una ratio decidendi della medesima. Una affermazione, infatti, contenuta nella motivazione della sent. di appello, che non abbia spiegato alcuna influenza sul dispositivo della stessa, essendo improduttiva di effetti giuridici, non può essere oggetto di ricorso per Cassazione, per difetto di interesse (tra tante v. Cass. 22/11/2010 n. 23635; 19/2/2009 n. 4053; Cass. 5/6/2007 n. 13068, Cass. 14/11 2006 n. 24209, Cass. 23/11/2005 n. 24591).

Quanto alle doglianze contenute nella seconda parte del motivo, si osserva che la Corte di Appello, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, ha accertato:

1. che la  riduzione dell’impianto preclude la visuale dell’altro androne condominiale e del cortile interno dai balconi dell’abitazione S. con una diminuzione del grado di visualità del 50%;

2. che l’unità dell’attore ha subito un grave pregiudizio in luminosità, soleggia mento e ariosità, non solo per effetto della gabbia, ma anche dei pannelli a vetri bruniti, che non possono essere puliti dall’interno;
3. che la gabbia impedisce l’apertura completa della preesistente cancellata a protezione della finestra attorea  e costituisce un punto di accesso di malintenzionati per raggiungere il balcone;

4. che con l’impianto è stata arbitrariamente inglobata la tubazione idrica dell’appartamento S, impedendo così la normale manutenzione dell’impianto, mentre il pannello in alluminio ne impedisce la consueta ispezione ai fini della manutenzione ordinaria e straordinaria;

5. che i cavi di alimentazione oleodinamica dell’ascensore costeggia tinti la parete interna dell’arco a volta del primo androne sino alla facciata ove si apre il balcone attoreo non sono stati messi sotto traccia, con conseguente danno estetico per la parte sotto i balconi e per quella sopra la porta d’ingresso dell’unità S;

6. che al distanza dell’impianto rispetto ai balconi è inferiore a quella del progetto (cm. 44 anziché 90), e anche la virtuale modifica dei battenti al primo piano costituisce un’ulteriore barriera architettonica , con ulteriore aggravio in termini di luminosità, soleggia mento e ariosità in danno dell’’attore. Nel condividere il giudizio espresso dal consulente tecnico d’ufficio, secondo cui dagli inconvenienti innanzi indicati è derivata una riduzione del 25% del valore dell’appartamento dell’attore, la Corte territoriale ha ulteriormente evidenziato che l’impianto di ascensore, pur essendo stato realizzato col sistema oleodinamico, nelle ore notturne è produttivo di una qualche rumorosità per il predetto appartamento.

Il ricorrente si è limitato a criticare la valutazione operata dal giudice del gravame solo con riferiremo to agli aspetti della luminosità e della rumorosità; ma nulla ha obiettato riguardo agli altri profili di compromissione del diritto di proprietà esclusiva dell’attore, analiticamente individuati nella sentenza impugnata e di per sé idonei a sorreggere  la decisione. Ne discende l’inammissibilità del motivo in esame, nella parte de qua, per difetto di interesse.

Secondo un principio affermato dalla giurisprudenza, infatti, nel caso in cui venga impugnata una sentenza ( o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte automaticamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non colo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché  si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza in toto o nel suo singolo capo, per tutte le ragione che automaticamente l’una o l’altro sorreggono. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni  non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza., divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (v. per tutte Cass. S.U. 8/8/2005 n. 16602).

È superfluo aggiungere che el censure mosse in ordine alla luminosità ed alla rumorosità sono formulate in termini del tutto generici e investono, comunque, il merito delle valutazioni espresse dalla Corte distrettuale, che, in quanto sorrette da motivazione immune da vizi logici, si sottraggono al sindacato di legittimità.

2) con il secondo motivo il ricorrente lamenta ancora la violazione e falsa applicazione degli artic. 1120, 1136 e 1137 cc, nonché l’omesso esame di documentazione decisiva.

Deduce che l’affermazione della Corte d’Appello, secondo cui, in precedenza, non vi sarebbe stata accettazione del dante causa dell’attore alla installazione dell’ascensore, si pone in contrasto con le delibere assembleari del 21/10/1993 e del 1/2/1996.

Sostiene di conseguenza, che le impugnative proposte dallo S avverso le delibere del 24/4/1997 e 27/11/1997 devono considerarsi inammissibili. Rileva che la volontà dei danti causa degli attori risulta confermata dallo stesso S nelle dichiarazioni rese nel corso dell’assemblea del 29/4/1997 e nell’atto di citazione del 28/5/1997,  e che la corte d’Appello ha omesso di esaminare la lettera del 4/9/1998 inviata all’amministratore, con al quale l’attore, in buona sostanza, non si era opposto alla modifica dell’originario progetto dell’ing. C, che prevedeva la realizzazione dell’ascensore nel primo cortile. Sostiene, infine, che anche l’impugnazione delle delibere assembleari per nullità deve essere proposta nel termine di decadenza di 30 gironi previsto dall’art. 1137, comma 3 cc.

Anche tale motivo è infondato.

La Corte di Appello, all’esito di un’esauriente ed approfondita disamina degli atti, ha escluso che in occasione delle precedenti delibere assembleari richiamate dal convenuto vi sia stata accettazione della realizzazione dell’ascensore da parte  dei danti causa dello S. Essa ha osservato, in particolare, che nell’adunanza del 1/2/1996 la dante causa S P non si oppose all’impianto, a condizione che il medesimo non pregiudicasse la ‘visibilità’ dell’appartamento, senza prestare, quindi, un consenso pieno e incondizionato; e che nella tornata del 21/10/1993, allorchè  si discusse della proposta in linea di massima di alcuni condomini di installare l’ascensore, al stessa S si limitò a dichiarare, ancor prima che fosse presentato il  progetto, che non intendeva partecipare alla spesa nè usufruire di tale impianto. Ciò posto, si osserva che appaiono congrui e convincenti i rilievi svolti dalla Corte territoriale, secondo cui le predette delibere non contenevano alcuna approvazione da parte della S, non essendo configurabile l’adesione a un progetto ancora ‘in itinere’. E infatti, come è stato ulteriormente spiegato nella sentenza impugnata, nella tornata del 1/2/1996 l’assemblea non esaminò il  progetto esecutivo, ma si limitò ad approvare il progetto di massima, dal quale non emergevano elementi utili a comprovare il pregiudizio derivante dall’unità immobiliare dello S.

Le valutazioni espresse al riguardo dal giudice del gravame si sottraggono al sindacato di legittimità, essendo sorrette da  argomentazioni immuni da vizi logici e costituendo espressione di un tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice di merito. Le deduzioni svolte dal ricorrente per sostenere che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte distrettuale, al dande causa dell’attore aveva prestato il pieno consenso alla realizzazione dell’opera, pertanto, al di là della formale denuncia di vizi di motivazione, si risolvono nella inammissibilità richiesta di  una diversa valutazione del contenuto e della portata delle menzionate delibere assembleari, non consentita in questa sede.

Quanto, poi, alla lettera del 4/9/1998, di cui il ricorrente lamenta l’omesso esame, le censure mosse difettano del requisito di specificità, non precisando in modo sufficiente l’effettivo contenuto delle missiva, sì da porre questa corte nelle condizioni di apprezzare l’eventuale decisività del documento in questione.

Sotto altro profilo, si osserva che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l’azione proposta dall’attore, essendo diretta a far valere la nullità delle due delibere del 1997, non era soggetta al termine di decadenza previsto dall’art. 1137 comma 3 cc; e che, come evidenziato dalla Corte di Appello, la nullità delle delibere condominiali può essere dedotta anche dal condominio che in assemblea si sia dimostrato consenziente all’esecuzione di opere poi rivelatesi lesive del suo diritto individuale.

Deve premettersi che, secondo il consolidato orientamento di questa la Corte, debbono qualificarsi nulle le delibere dell’assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito, le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all’oggetto; debbono, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione della’assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all’oggetto (Cass. S.U. 7/3/2005 n. 4806; Cass. 9/12/2005 n. 27292; Cass. 20/7/2010 n. 17014).

Nella specie, pertanto, correttamente la Corte di Appello ha ritenuto la nullità delle due delibere impugnate, derivando dalle stesse la lesione del diritto dominicale esclusivo dell’attore e una indebita invasione nella sua sfera giuridica primaria.

Ai sensi dell’art. 1120 comma 2 cc, infatti, devono ritenersi vietate non solo le innovazioni che, ancorchè adottate con le maggioranze qualificate di cui all’art. 1136 cc , compromettono il pari uso e il concorrente diritto degli altri partecipanti nell’utilizzazione della cosa comune, ma anche quelle che pregiudichino la proprietà esclusiva dei singoli condomini.

In tali sensi si è già pronunciata questa Corte, rilevando, in  particolare, che l’art. 2 legge 9 gennaio 1989 n. 13 (recante norme per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere  architettoniche negli edifici privati), dopo avere previsto la possibilità per l’assemblea condominiale di approvare le innovazioni preordinate a tale scopo con le maggioranze indicate nell’art. 1136 comma secondo e terzo cc – così derogando all’art. 120 comma primo, che richiama il comma quinto dell’art. 1136e, quindi, le più ampie maggioranze ivi contemplate- , dispone, al terzo comma, che resta fermo il disposto dell’art. 120 comma secondo, il quale vieta le innovazioni che rendono talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell’utilità secondo l’originaria costituzione della comunione. 

Ne deriva che, a maggioranza al fine indicato, siano lesive dei diritti di altro condominio sulla porzione di sua proprietà esclusiva, indipendentemente da qualsiasi considerazione di eventuali utilità compensative (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione dei giudici di merito i quali avevano dichiarato la nullità della deliberazione adottata a maggioranza in base all’art. 2 legge n. 13/1989 cit. di installazione di un ascensore volto a favorire le esigenze di un condomino portatore di handicap, che comportava sensibile deprezzamento dell’unità immobiliare di altri condomino sita a piano terra) (Cass. 25/6/1994 n. 6109).

Per le stesse ragioni deve ritenersi la nullità della delibera di installazione dell’impianto di ascensore adottata nell’inetresse comune, se da essa consegua la violazione dei diritti di un condomino sulle parti di sua proprietà esclusiva; con la conseguenza che tale causa di invalidità non è soggetta ai termini di impugnazione di cui all’art. 1137 ult. comma cc, ma può essere fatta valere in ogni temo da chiunque dimostri di averne interesse e,., quindi, anche dal condomino che abbia espresso voto favorevole (cfr. Cass. 19/3/2010 n. 6714, Cass. 24/5/2004, n. 9981; Cass. 18/4/2002 n. 5626).

3) il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal resistente nel presente grado di  giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 2.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.

Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 24/5/2012.

Il Consigliere estensore           
Lina Matera                                                                il Presidente
                                                                                  Roberto Michele Triola


venerdì 24 agosto 2012

Tribunale di Rimini - Sentenza n. 148/2012 - Vaccinazione obbligatoria. Indennizzo ex legge n. 210/1992. Autismo



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI RIMINI

Sezione civile, settore, lavoro

in composizione monocratica in presenza del giudice Lucio Ardigò pronuncia

SENTENZA

nella causa civile, col rito del lavoro, iscritta al N. 474/10 RGL, promossa da

*****  e ***** in proprio e in qualità di genitori esercenti la potestà genitoria sul figlio minore ***** (   ) rappresentato e difeso dall’Avv. ****** e con domicilio eletto in ******** RIMINI presso lo studio dell’avv. *****


RICORRENTE
CONTRO

MINISTERO DELLA SALUTE ( CF 80242255589), con il patrocinio dell’avv. AVVOCATURA DISTRETTUALE DELLO STATO e elettivamente domiciliato in VIA GUIDO RENI 4 40125 BOLOGNA presso lo studio dell’avv. AVVOCATURA DISTRETTUALE DELLO STATO


CONVENUTO
Avente ad oggetto:

indennizzo di cui all’art. 2, comma 1, della legge n. 210 del 1992

MOTIVAZIONE

Con ricorso depositato 08/06/2010 ***** e **** nella loro qualità di genitori esercenti al potestà sul figlio  **** convenivano in giudizio il Ministero della Salute domandandone la condanna al pagamento dell’indennizzo per danni da complicanze irreversibili a causa di vaccinazione obbligatoria.

A fondamento della domanda esponevano che in data 26/03/2004 il minore **** veniva sottoposto alla profilassi trivalente MPR presso l’AUSL di Riccione.

Lo stesso giorno insorgevano sintomi preoccupanti (diarree, nervosismo) mentre tra il 2004 e il 2005 **** manifestava segni di grave disagio psico-fisico fino alla data del 03/08/2007 in cui avveniva il riconoscimento della invalidità totale e permanente al 100%.

Soltanto in data 27/06/2008  lo specialista dott. NIGLIO attestava come i danni riportati dal minore fossero riconducibili alle vaccinazioni praticate, tesi questa definitivamente confermata in data 25/07/2009 dallo specialista dott. MONTANARI.

Pertanto in data 28/04/2008 i genitori ricorrenti presentavano domanda di accertamento dei requisiti di idoneità per l’indennizzo previsto a favore dei soggetti danneggiati per complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie ma in data 13/10/2008 la Commissione Medica Ospedaliera respingeva  la domanda perché la vaccinazione MPR non risultava obbligatoria per legge o per Ordinanza di Autorità Sanitaria.

La causa, istruita mediante produzione di documenti e l’esperimento di consulenza medico-legale era discussa alla odierna pubblica come da sentenza contestuale.

In via pregiudiziale va affermata la legittimazione passiva del Ministero poiché in deroga a quanto previsto dall’art. 114 del D. l. vo n. 112 del 1998 circa il conferimento alle Regioni delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di salute, l’art. 123 stesso decreto ha riconosciuto espressamente il mantenimento allo Stato delle funzioni in materia di ricorsi (da intendere sia amministrativi che giurisdizionali, in difetto di distinzione normativa) per corresponsione degli indennizzi a favore di soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie e simili trattamenti sanitari.

Tesi quest’ultima condivisa dalla più recente e prevalente giurisprudenza  della Suprema Corte di Cassazione che ha chiarito come nel caso di specie la legittimazione passiva spetti esclusivamente al Ministero della Salute (vedi da ultimo Cass. sez. L. n. 29311 del 28/12/2001 Rv. 620379; Conformi stessa sez. 13/12/2009, n. 21702, n. 21703,n. 21704, n. 21706, n. 21707, del 19/10/2009 n. 22111, del 2010/2009, n. 22166, del 3/11/2009 n. 23216, n. 23217, del 5/11/2009 n. 23434, del 6/11/2009 n. 23588).
In punto di diritto si ritiene che il fatto che la dedotta menomazione permanente della integrità psicofisica sia riconducibile ad una vaccinazione  non obbligatoria non possa rivelarsi ostativo al riconoscimento dell’indennizzo richiesto.

Vanno, infatti, qui richiamate le sentenze della Corte Costituzionale n. 27/1998 e 423/2000 che hanno dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artic. 2 e 32 della Cost, l’art. 1 comma 1 L. 25 febbraio 1992 n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati), nella parte in cui non prevedeva il diritto all’indennizzo, alle condizioni ivi stabilite, di coloro che erano stati sottoposti vaccinazioni non obbligatorie antipoliomelitica e antiepatite B a seguito delle campagne legalmente promosse dall’autorità sanitaria per la diffusione di tali vaccinazioni.

Vaccinazioni queste ultime quindi, che al pari della vaccinazione trivalente MPR di cui è causa, erano state fortemente incentivate dallo Stato, pur non impedendole come obbligo giuridico: non essendo costituzionalmente lecito alla stregua degli artt. 2 e 32 Cost., richiedere che il singolo esponga a rischio la propria salute per un interesse collettivo, senza che la collettività stessa sia disposta a condividere, come è possibile, il peso delle eventuali conseguenze negative, non vi è ragione di differenziare, dal punto di vista dell’anzidetto principio, il caso in cui il trattamento sanitario sia imposto per legge da quello in cui esso sia, in base ad una legge, promosso dalla pubblica autorità in vista della sua diffusione capillare nella società.

Venendo al merito, devono essere condivise le valutazioni medico-legali svolte dall’ausiliare medico-legale il quale, sulla base di un esame approfondito del caso anche alla luce della letteratura specialistica aggiornata, ha conclusivamente affermato come il piccolo ***** sia affetto da DISTURBO AUTISTICO ASSOCIATO A RITADO COGNITIVO MEDIO  “riconducibile con ragionevole probabilità scientifica alla somministrazione del vaccino MPR avvenuta in data 26/03/2004 presso l’ASL di Riccione.

Va altresì recepita la valutazione dell’ausiliare che in conformità alla valutazione espressa dalla Commissione Medica ha ritenuto che sussista una menomazione permanente della integrità psicofisica accertata ascrivibile alla Prima Categoria della Tabella A allegata al D.P.R. 30/12/81 n. 834.

Quanto all’accertamento, da parte dei genitori, della effettiva conoscenza della causa dell’infermità, va evidenziato il fatto che in nessuno dei documenti medici esaminati il quadro patologico accertato sia stato definito come post- vaccinico nel senso causato dall’inoculo del vaccino e che il rapporto di causalità viene indicato per la prima volta soltanto nella relazione medica in data 27/06/2008 dallo specialista dott. NIGLIO.

In particolare si deve evidenziare come il dies a quo decorra non già dalla conoscenza della diagnosi ovvero dal mero sospetto di una origine da vaccinazione obbligatoria ma dal momento in cui, sulla base della documentazione medica, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza eziologica tra il danno irreversibile (compresa l’ascrivibilità tabellare) e la causa di vaccinazione (che dà titolo all’indennizzo).

Come ribadito dalla Corte di Cassazione nella materia analoga della conoscenza della malattia professionale indennizzabile, non è sufficiente che il lavoratore sia informato della mera genesi professionale della patologia ma è altresì necessario che lo stesso sia consapevole della importanza dei postumi tali da realizzare una menomazione superiore al discrimine percentuale fissato per il riconoscimento del diritto alla rendita (cfr., in tal senso Cassazione civile sez. sez. lav., 3 aprile 19993, n. 4031, in  Riv. infort. E mal. Prof. 1993, II, 111; nonché Cassazione civ. sez. lav., 8 gennaio 1996, n. 63 INAIL c Bulgari rv 495260).

Pertanto, poiché risulta rispettato il termine perentorio di anni 3 dalla conoscenza della causa del danno ( art. 3 della l. n. 210 del 1992), essendo la menomazione permanente dell’integrità psico-fisica del soggetto ascrivibile alla 1^ categoria della tabella A allegata al D.P. R. 30/12/81 n. 834, va riconosciuto il diritto all’indennizzo previsto di cui agli artic. 1 e 2 della l. 210/1992 ivi compresa la corresponsione dell’Una Tantum di cui all’art. 2 comma 2 della medesima legge.

A norma della combinata disposizione di cui agli artic. 429 cpc e 16 comma 6, della l. 30/12/1991 n. 412, l’importo dovuto a titolo di interessi legali sui crediti previdenziali è portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno per la diminuzione del valore del credito, ragione per cui la rivalutazione monetaria diviene operativa soltanto per i periodi  di tempo per i quali l’importo degli interessi non è sufficiente a coprire per intero il danno da svalutazione.

Le spese del giudizio liquidate in dispositivo cedono a carico del Ministero per il generale criterio della soccombenza.

Per lo stesso motivo sono poste definitivamente a carico del Ministero  anche le spese di CTU, nella misura già liquidata con separato decreto.

PER QUESTI MOTIVI

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI RIMINI

in composizione monocratica in funzione di giudice del lavoro

pronunziando in via definitiva sulla domanda proposta da *****  e   *** *** quali genitori esercenti la potestà sul figlio  ***** con ricorso depositato il giorno 8/06/2010, disattesa ogni altra istanza, eccezione o deduzione, così provvede, in  contraddittorio con il Ministero della Salute:

1) accertato che ***** è stato danneggiato da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazione (profilasse trivalente MPR) con diritto all’indennizzo di cui agli artt. 1 e 2 della l. n. 210 del 1992, (assegno vitalizio reversibile per 15 anni), condanna il Ministero della Salute in persona del ministro in carica a corrispondere a ****** l’indennizzo previsto dagli artic. 1 e 2 della l. 210/1992 ivi compresa la corresponsione dell’Una Tantum di cui all’art. 2 comma 2 della medesima legge (per i ratei arretrati oltre interessi nella misura legale ed eventuale rivalutazione monetaria secondo indici ISTAT, come per legge dalla domanda al saldo);

1. condanna il Ministero della Salute al pagamento delle spese giudiziali che si liquidano in complessivi € 2.500,00, oltre I.V.A., C.P.A. e rimborso delle spese generali come per legge;

2. Pone definitivamente a carico del Ministero della Salute il pagamento delle spese di CTU.

Così deciso in Rimini, all’udienza pubblica del giorno 15/03/2012.

IL GIUDICE

Lucio ARDIGO’