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venerdì 11 settembre 2009

MEMORIA INTEGRATIVA FINALE NEL GIUDIZIO DI EQUA RIPARAZIONE




CORTE D’APPELLO DI NAPOLI

Memoria integrativa

Per ______________, con l’avv. Gennaro De Natale.

C O N T R O

Ministero della Giustizia, con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli.

D I R I T T O

1 Violazione del termine ragionevole di durata del procedimento e responsabilità del Ministero della Giustizia.


La durata del suddetto processo, per i motivi indicati nel ricorso introduttivo, è abnorme ed irragionevole. Il ricorrente ha diritto ad ottenere l’equa riparazione dei danni subiti, in quanto la durata del suddetto processo non trova giustificazione né nella complessità della vertenza né nella condotta delle parti.

La Suprema Corte ha più volte ribadito che l’azione tendente ad ottenere l’equa riparazione è di natura indennitaria e non risarcitoria: ai sensi della L. 89/2001, il diritto ad un’equa riparazione avente carattere indennitario e non risarcitorio, non richiede l’accertamento di un illecito, né presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente: esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (d’ora innanzi CEDU), cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole (Cass. 22/10/2002 n. 14885).

Inoltre, la funzione risarcitoria del danno per il mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo si distacca dallo schema del risarcimento da fatto illecito, e deve essere correttamente ricondotta nell’ambito delle fattispecie indennitarie compensative di danni prodotti nell’esercizio di attività lecite (Cass. 18/3/2003 n. 3973).


Dall’esame di tali pronunce emerge una responsabilità di tipo oggettivo del Ministero resistente, il quale ha violato il termine ragionevole di durata del procedimento in esame. Da quanto esposto ne discende che per attribuire tale forma di responsabilità al Ministero, non occorre provarne la colpa ex art. 2043 cc, ma è sufficiente provare il dato oggettivo del tempo in eccesso trascorso dall’inizio del procedimento.


Il presupposto della responsabilità del Ministero della Giustizia risiede nella violazione del termine di durata del procedimento, che non è rigidamente predeterminata, ma va desunta anche con ricorso ai criteri indicati nell’art. 2 L. 89/2001.

Tuttavia, il temperamento attingibile dai suddetti criteri non giustifica una radicale sterilizzazione del dato temporale. Infatti, anche le cause complesse e quelle in cui le parti abbiano tenuto un comportamento defatigatorio soggiacciono alla norma che ne impone la definizione in un tempo ragionevole, in quanto, secondo un principio enunciato dalle Sezioni Unite, il giudice deve fare fronte alla complessità del caso con un più risoluto ed incisivo impegno, ed al comportamento defatigatorio delle parti con l'attivazione dei rimedi all'uopo previsti dal codice di rito civile. Dunque, il dato fondamentale da assumere a base dell'accertamento della violazione è quello, di natura oggettiva, costituito dalla durata del processo, sul quale possono incidere i criteri indicati nell'art. 2, comma 1, cit., senza peraltro eliminare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass. n. 8600/2005; Cass. SS. UU., n. 1338 del 2004).


In particolare, nel caso in esame, è doveroso sottolineare che:


A) Ai fini della responsabilità dello Stato, il criterio della durata massima del procedimento si deve armonizzare con un metro di scansione temporale interna del procedimento che fissa in tre mesi la lunghezza del rinvio ragionevole (Corte appello Firenze, 25 gennaio 2002), mentre invece, nel caso in questione, la media della lunghezza dei rinvii è stata ampiamente superata;


B) a proposito, poi, dei rinvii che, nell’ambito del processo in esame, siano stati chiesti dalle parti, è necessario evidenziare che, in tema di valutazione della ragionevole durata del processo, non tutto il lasso di tempo intercorso tra una udienza e l’altra può essere imputato al comportamento della parte che abbia chiesto il rinvio, dovendo il giudice adito in sede di equa riparazione verificare se l’entità del rinvio sia ascrivibile anche a concorrenti cause dell’organizzazione giudiziaria (Cass. 30/03/2005 n. 6713; Cass. 7/2/2004 n. 6856), come avvenuto nella fattispecie in esame. In ogni caso, i rinvii chiesti dalle parti non hanno certamente contribuito a rendere irragionevole la durata del processo oggetto del presente giudizio;


C) Infine, va ascritta al sistema giudiziario nel suo complesso, la concessione di rinvii con intervalli concreti anche cospicui; il tempo decorso per rinvii d’ufficio e per gli aggiornamenti dell’udienza connessi allo svolgimento di attività istruttorie; le pause dovute ad adempimenti referendari ed elettorali; gli intervalli per scoperture dell’organico del personale negli uffici; i periodi di ferie.


In definitiva, nel caso in esame, il ritardo del procedimento può addebitarsi all’apparato giudiziario. Infatti, a prescindere dalle esigenze dei rinvii di causa, basti rilevare che l’art. 175 cpc impone al giudice istruttore di esercitare tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento, e l’art. 81 disp. att. Cpc stabilisce che i rinvii da una udienza all’altra non dovrebbero superare i 15 gg., a meno che non vi siano delle giustificate esigenze.


L’obbligo assunto a livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione impegna lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni, concorrere all’adempimento di tale obbligo (Sent. CEDU 26/10/88, Martins Moreira c/ Portogallo), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento negligente degli organi giudiziari, ma più in genere per il fatto di non aver provveduto ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole velocità la domanda di giustizia (Sent. CEDU 10/12/92, Boddeart c/ Belgio).


Pertanto, la causa avrebbe potuto durare anche meno del periodo che normalmente viene ritenuto ragionevole per un giudizio di primo grado (in media tre anni) in quanto, nel caso di specie, il processo avrebbe potuto concludersi in non più di tre anni, tenuto conto della minima attività istruttoria espletata e della scarsa complessità del caso.


In ogni caso, la durata del processo non avrebbe dovuto superare, nel suo complesso, il triennio. Dunque, il procedimento civile in questione ha sicuramente superato la soglia della durata ragionevole ex art. 6 paragrafo 1 CEDU.

2 Termine e condizioni di proponibilità del ricorso ai sensi dell’art. 4 L. 89/2001.

Ai sensi degli artt. 133 e 327 cpc ed art. 1 L. 7/10/1969 n. 742, la decisione non è ancora divenuta definitiva e, pertanto, il termine di decadenza di cui all’art. 4 L. 89/2001 non è ancora spirato. Il presente ricorso risulta, quindi, proposto tempestivamente. In tal senso, del resto, si è espressa anche la Suprema Corte con sentenza n. 11231 del 18/07/2003, la quale ha appunto affermato che "ai fini della condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione ex art. 4 L. 89/2001, sussiste la pendenza del procedimento, nel cui ambito la violazione del termine di durata ragionevole si assume verificata, allorché sia stata emessa la relativa sentenza di primo grado e non sia ancora decorso il termine lungo per l'impugnazione". Con ciò rendendosi evidente che, in relazione ai giudizi di cognizione, la domanda di equa riparazione può essere proposta entro il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento della cui ragionevole durata si dubiti (Cass. 29/09/2004 n. 19526).


Inoltre, l'art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, che prevede la sospensione dei termini processuali in periodo feriale, si applica anche al termine di sei mesi previsto dall'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 per la proposizione della domanda di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo. (Cass. 11/03/2009, n. 5895).

3 Conseguenze pregiudizievoli per la vittima con peculiare riferimento alla natura della controversia.

Il giudizio oggetto del presente ricorso ha ad oggetto pagamento somme.

Tale giudizio ha procurato notevoli danni al ricorrente, sia sotto il profilo economico che morale, con conseguenti notevoli patimenti, oltre agli inevitabili e prolungati disagi causati al normale svolgimento della vita familiare: la particolare natura della causa, infatti, ha comportato non solo notevoli pregiudizi economici, ma soprattutto ansia e patema d’animo. Il danno morale indubbiamente sussiste, poiché non vi è dubbio che la lunga attesa della definizione di un giudizio di notevole rilevanza economica e riguardante un interesse di rilievo determini nell’interessato stanchezza, sfiducia nella giustizia e più in generale nelle istituzioni, senso di impotenza e quindi in definitiva uno stato d’animo negativo, che è suscettibile di ristoro in termini di danno morale.

4 An debeatur della domanda di equa riparazione.
Il processo civile oggetto del presente giudizio, non è stato conforme all’art. 6 par. 1 della CEDU, con specifico riferimento al termine ragionevole di durata, essendo stata minima l’attività istruttoria espletata e non essendovi stato alcun comportamento dell’attore, odierno ricorrente, che abbia potuto ritardare il corso del processo.
Il caso non era complesso: il giudice adito avrebbe dovuto semplicemente ascoltare i testi e verificare la relazione del CTU, attività per le quali non era necessario superare il termine di ragionevole durata.

L’istante osserva che la durata ragionevole del processo ex art. 6 CEDU deve essere calcolata, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo grado ed in un anno per ciascuna fase successiva.

L’Ecc.ma Corte adita potrà agevolmente statuire che, in ogni caso, la durata del processo di primo grado non avrebbe dovuto superare il triennio.

L’istante, a causa esclusiva del ritardo del procedimento, e come conseguenza diretta di questo, ha subito una serie di danni risarcibili, di natura non patrimoniale. Risulta evidente il gravissimo pregiudizio morale subito, atteso che la durata del procedimento non ha fatto altro che aggravare le sofferenze psicologiche subite dal ricorrente.

Appare chiaro che, se il procedimento avesse avuto una durata ragionevole, le sofferenze psichiche dell’istante, il patema d’animo e lo stato di assoluta insoddisfazione sarebbero stati del tutto modesti, mentre, al contrario, questi si sono protratti per tutto il corso del procedimento.

A tal proposito, la Suprema Corte ha chiarito che “in caso di non ragionevole durata del processo, ove si richieda il risarcimento del danno non patrimoniale subito, la natura dello stesso rende plausibile sia il suo accertamento mediante il ricorso a presunzioni e a fatti notori, sia la liquidazione con valutazione equitativa, a norma dell’art. 1226 cc, atteso che preoccupazioni, tensioni e disagi della persona fisica non sono suscettibili di una facile dimostrazione diretta che può, dunque, essere desunta anche in via indiretta dalla deduzione dell’insieme delle circostanze di fatto del caso concreto allegate e provate o, comunque, emergenti dagli atti” (Cass. 24/10/2003 n. 16047). Infatti, nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione, la quale riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, conformemente ai principi elaborati in materia dalla Corte di Strasburgo, hanno precisato che, allorquando venga accertata la violazione del termine ragionevole di durata del procedimento, il danno non patrimoniale deve presumersi esistente, a meno che, per la particolarità della fattispecie, possa rivelarsi inesistente.

Inoltre, è stato ritenuto che è indubbio che la lunga attesa della definizione di un qualsiasi giudizio determini nel cittadino stanchezza, sfiducia nella giustizia e più in genere nelle istituzioni, senso di impotenza e, quindi, in definitiva uno stato d'animo negativo suscettibile di ristoro in termini di danno morale ai sensi del disposto di cui all'art. 2 comma 1 della l. n. 89 del 2001, da liquidarsi in via equitativa (Corte appello Napoli, 13 dicembre 2001).

In buona sostanza, una volta accertata la violazione deve, di regola, considerarsi "in re ipsa" la prova del relativo pregiudizio, nel senso che detta violazione comporta nella normalità dei casi anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale (Cass. 16/2/2005 n. 3118).

Pertanto, in assenza di situazioni particolari che si rivelino presenti nel singolo caso concreto, il danno non patrimoniale non può essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla durata ragionevole del processo. Tanto anche perché l’equa riparazione riconosciuta dalla legge 89/2001 è un diritto non al risarcimento del danno, ma un indennizzo: di conseguenza, rimane irrilevante ogni eventuale riferimento all’elemento soggettivo della responsabilità (Cass. Sez. Un. 27/11/2003-26/01/2004 n. 1339).

Inoltre, ai fini del riconoscimento del diritto all’equa riparazione, la parte privata ricorrente non deve provare il danno morale, trattandosi di conseguenze che normalmente si verificano secondo l’id quod plerumque accidit (Cass. 29/03-11/05/2004 n. 8896): una volta accertata la sussistenza della violazione del termine di ragionevole durata del processo, la parte che assume di aver subito un danno non patrimoniale in conseguenza della eccessiva durata del processo, non è tenuta a fornire specifica prova dello stesso, atteso che, secondo la CEDU, il danno non patrimoniale (da identificarsi col patema d’animo, con l’ansia, con la sofferenza morale causate dall’esorbitante attesa della decisione), a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e cioè di regola per effetto della violazione della durata ragionevole del processo, per cui deve ritenersi presente secondo l’id quod plerumque accidit senza bisogno di alcun sostegno probatorio (Cass. 12/08/2005 n. 16885).

In definitiva, il riconoscimento del processo come causa di ansia, di stress e di dispendio di tempo ed energie suscettibile di dar luogo al risarcimento delle parti che lo abbiano irragionevolmente subito è da ritenere principio d’ordine costituzionale immediatamente precettivo (Ved. Cass. Sez. Un. 23/12/2005 n. 28507).

E ancora, secondo i giudici di Cassazione l’esito sfavorevole della lite non esclude il diritto all’equa riparazione per il ritardo se non nei casi in cui sia ravvisabile un vero e proprio abuso del processo, configurabile allorquando risulti che il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, con tattiche processuali di varia natura.

Siffatti principi, secondo la giurisprudenza della CEDU valgono anche per le persone giuridiche e, più in generale, per i soggetti collettivi, per i quali il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, non diversamente da quanto avviene per le persone fisiche, si pone quale conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione CEDU, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri (Cass. 3396/2005; Cass. 13504/2004; Cass. 13163/2004; Cass. 15093/2004).

La L. 89/2001 si applica anche al procedimento esecutivo: in tal caso, ai fini della determinazione della ragionevole durata, si deve accertare quando il diritto azionato ha trovato effettiva realizzazione (Cass. 26/7/2002 n. 11046).

Frazioni di anno. Secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte vanno risarciti anche i ritardi relativi alle frazioni di anno (Cass. n. 14/08; Ord. Cass. n. 2331 del 31/01/08; Cass. n. 29543 del 12/12/08.

5 Determinazione del quantum della domanda per l’equa riparazione.
Il ricorrente, richiamati i parametri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, chiede a titolo di equa riparazione un risarcimento per danno morale (non patrimoniale) nella misura che codesta Ecc.ma Corte di Appello riterrà equa e giusta.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con le sentenze n. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 26 gennaio 2004, ha stabilito che i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, anche se questi può discostarsi in misura ragionevole dalle liquidazioni effettuate a Strasburgo in casi simili: la liquidazione del danno non patrimoniale effettuata dalla Corte d’appello a norma dell’art. 2 della legge n. 89/2001, pur conservando la sua natura equitativa, è tenuta a muoversi entro un ambito che è definito dal diritto, perché deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo, da cui è consentito discostarsi purché in misura ragionevole (Ved. anche Cass. 20235/2004).

Per tutto quanto sopra esposto, si chiede che l'Ecc.ma Corte adita, respinta ogni contraria domanda, eccezione e deduzione, voglia accogliere le conclusioni rassegnate nell’atto introduttivo.
Napoli,

Avv. Gennaro De Natale

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