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martedì 29 settembre 2009

OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO PER FINANZIAMENTO



TRIBUNALE CIVILE DI PRATO

Atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo

Il Sig. ___________, nato a Salerno, il ____________, ed ivi residente alla via ___________ n. 6, cf ____________________, rapp.to e difeso dall’avv. Gennaro De Natale del Foro di Salerno, presso il cui studio elettivamente domicilia in virtù di mandato a margine del presente atto, propone formale

O P P O S I Z I O N E

avverso il decreto ingiuntivo n. ____________, Reg. Gen. _________, Cron. _________, emesso il ___________ dal Tribunale di Prato per la somma di euro 3.111,44 oltre interessi e spese, notificato all’opponente in data _______ ad istanza della società ___________, in quanto tale decreto è ingiusto ed illegittimo per i seguenti

M O T I V I

F A T T O

Nel mese di marzo 2006, il Sig. _____________ ha sottoscritto, nei locali della Snc _______________ di Salerno, un contratto di acquisto di beni mobili nonchè contestuale contratto di finanziamento finalizzato all’acquisto degli stessi (all. 3).

Tuttavia, poiché a tutt’oggi tali beni non sono stati ancora consegnati da parte del venditore _________ (all. 4), unico beneficiario delle somme erogate dalla __________ SpA, il Sig. ______, con racc.te ar n. _______ del 7/7/2006, ha dapprima chiesto la risoluzione del contratto di compravendita per inadempimento assoluto del venditore (all. 5), ed in seguito la risoluzione del contratto di finanziamento, il quale ultimo era finalizzato all’acquisto dei suddetti beni (all. 6).

DIRITTO

1) Incompetenza per territorio del giudice adito.

E’ da rilevare, preliminarmente, la totale mancanza di correttezza della società ___________ SpA che, in palese spregio delle norme in materia di competenza territoriale, ha proposto il ricorso per decreto ingiuntivo dinanzi al giudice del luogo in cui la società stessa ha la sede operativa, e ciò all’evidente e palese scopo di scoraggiare qualsiasi iniziativa difensiva dell’opponente che risiede nel Comune di Salerno.

Appare opportuno, pertanto, ricordare alla opposta le norme in materia di competenza territoriale previste dal codice di procedura civile nonché dalle leggi speciali:

A) l’art. 18 cpc stabilisce che è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio;

B) l’art. 20 cpc stabilisce che è competente il giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione;

C) l’art. 33 lett. U, D. Lgs. 06/09/05 n. 206 (Codice del Consumo), stabilisce che si presumono vessatorie le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore. Tale disposizione, tra l’altro già contenuta nell’art. 1469 bis cc, si interpreta nel senso che il legislatore, nelle controversie tra consumatore e professionista ha stabilito la competenza territoriale esclusiva (foro esclusivo speciale: Cass. 8/3/05 n. 5007) del giudice del luogo in cui il consumatore ha la residenza o il domicilio elettivo, presumendo vessatoria la clausola che preveda una diversa località come sede del foro competente, ancorché coincidente con uno di quelli individuabili sulla base del funzionamento dei vari criteri di collegamento stabiliti dal codice di procedura civile per le controversie nascenti da contratto (Cass. Ord. 13/6/06 n. 13642; Cass. 29/4/05 n. 8980; Cass. 28/6/05 n. 13890; Cass. 8/3/05 n. 5007; Cass. SS. UU. 1/10/03 n. 14669; Cass. 28/06/2005 n. 13890). Orbene, poiché l’opponente risiede a Salerno, che è anche il luogo in cui è sorta e deve eseguirsi l’obbligazione, ne discende che, alla luce delle precedenti considerazioni, il ricorso per decreto ingiuntivo doveva essere proposto dinanzi al Tribunale di Salerno: di conseguenza l’opposto decreto è da considerarsi invalido (Cass. 16/3/1999 n. 2352) o nullo (Cass. 5/6/1991 n. 6380), e quindi va revocato.

Risulta pertanto palese il grave pregiudizio economico che la ___________ SpA ha procurato all’opponente, in quanto, costringendolo a doversi difendere in un altro Foro, ha riversato sul soggetto debole costi aggiuntivi, pregiudicando così, sia il diritto alla difesa alla parte debole, sia il diritto del debitore alla correttezza ed equità nel rapporto negoziale.

In buona sostanza, si può affermare che la deroga alla competenza territoriale illegittimamente operata dalla società opposta costituisce un mezzo di pressione psicologica per ottenere, in maniera quanto mai scorretta, il pagamento di somme in realtà non dovute.

2) Risoluzione dei contratti di compravendita e di finanziamento per inadempimento.

Nel merito, e senza con ciò voler abbandonare l'eccezione che precede, va sottolineato che nel contratto a prestazioni corrispettive, verificatosi l'inadempimento non di scarsa importanza di una parte, l'altra può rifiutare l'adempimento, anche prima della domanda giudiziale di risoluzione (Cass. 31/7/1987 n. 6643), ciò che è stato fatto dall’opponente con racc.te ar ___________ del 7/7/2006 (all. 6).

Nel caso di specie si verte in tema di mutuo di scopo e di negozi collegati, e, pertanto, è applicabile il principio di diritto già fissato dalla Corte di Cassazione con la ben nota sentenza 20/1/1994 n. 474, per cui: Posto che nel contratto di mutuo è previsto lo scopo, consistente nel reimpiego della somma mutuata per l'acquisto del veicolo, e che in virtù del collegamento negoziale della somma concessa in mutuo beneficia il venditore, in seguito al venir meno dello scopo nel negozio di mutuo, concretato dalla risoluzione della compravendita dell'autoveicolo, il mutuante è legittimato a richiedere la restituzione della somma mutuata non al mutuatario, ma direttamente ed esclusivamente al venditore.
Il suddetto principio di diritto è stato successivamente condiviso e precisato dalla Suprema Corte e dalla giurisprudenza di merito (Ved., ex plurimis, Cass. 23/04/2001 n. 5966; App. Milano, 6/2/2001; Trib. Milano 15/1/2001).

Nel caso in esame ricorre un collegamento negoziale specifico, per cui gli effetti dei vari negozi si coordinano per l'adempimento di una funzione unica, e le vicende e, addirittura, la disciplina di ciascuno di essi sono variamente legate all'esistenza ed alla sorte dell'altro: il nesso tra più negozi, infatti, fa sì che l'esistenza, la validità, l'efficacia e l'esecuzione di uno influisca sulla validità, sull'efficacia e sull'esecuzione dell'altro.

Ciò si verifica perché il collegamento dipende dalla circostanza che uno dei due negozi trova la sua causa in un rapporto scaturito dall'altro, dalla funzione cui un negozio adempie rispetto all'altro, dall'intento specifico e particolare delle parti di coordinare i negozi instaurando tra di essi una connessione teleologica.

Il collegamento obiettivato nel contenuto dei diversi negozi fa sì che essi siano destinati a subire le ripercussioni delle vicende dell'altro.

Infatti, dal nesso di interdipendenza fra i negozi deriva che, secondo un'affermazione ricorrente nella giurisprudenza, le vicende dell'uno debbono ripercuotersi su quelle dell'altro, condizionandone la validità e l'efficacia (Cass. 6/9/1991 n. 9388). Pertanto i negozi concorrenti, nella loro combinazione, producono effetti giuridici ulteriori, non coincidenti con l'efficacia di ciascuno, in modo che venga ad instaurarsi un rapporto giuridico autonomo che ha nel collegamento la sua fonte genetica (Cass. 9/4/1983, n. 2520).

Lo specifico collegamento negoziale, cui dà luogo il cosiddetto contratto di mutuo di scopo (o di finanziamento finalizzato), consiste nella erogazione del credito a medio o a lungo termine, in cui acquista rilievo, accanto alla causa genericamente creditizia, il motivo specifico per il quale il mutuo viene concesso. La clausola di destinazione della somma mutuata si inserisce nel contratto, in modo da conformarlo alle esigenze che si intendono raggiungere, ragion per cui, secondo la terminologia corrente, il contratto si funzionalizza. Con il cosiddetto contratto di mutuo di scopo, cioè, il mutuante (finanziaria) pone un vincolo all'utilizzazione delle somme concesse in mutuo. La destinazione da imprimersi alle somme, dalla sfera dei motivi, si inserisce nel negozio, fino a tradursi nella funzione. L'impiego del capitale, da motivo estraneo alla struttura, entra a far parte del regolamento contrattuale: non a caso, infatti, il modulo contrattuale contiene la dicitura Richiesta di finanziamento per acquisto Beni/Servizi (all. 3).

In virtù della inserzione della clausola di reimpiego, il creditore acquista influenza per quanto attiene alla utilizzazione del capitale mutuato. A carico del mutuatario insorge una vera e propria obbligazione, consistente nella utilizzazione della somma nel modo previsto, secondo la diligenza richiesta nell'adempimento delle obbligazioni.

Stando alla giurisprudenza, il mutuo cosiddetto di scopo o di destinazione, cioè preordinato al perseguimento di determinate finalità, è caratterizzato dal fatto che il sovvenuto non solo si obbliga a restituire la somma mutuata, con la corresponsione dei relativi interessi, ma anche a realizzare lo scopo previsto, compiendo l'attività in concreto programmata, sì che un tale impegno interviene nel sinallagma contrattuale con rilevanza corrispettiva dell'attribuzione della somma (Cass. S.U. 27/12/1997 n. 13046; Cass. 10/6/1981 n. 3752).

Il mutuo di scopo, dunque, si caratterizza per il fatto che una somma di danaro viene consegnata al mutuatario (o addirittura ad altro soggetto, parte nel diverso contratto necessario per il raggiungimento dello scopo, come nella fattispecie) esclusivamente per raggiungere una determinata finalità, espressamente inserita nel sinallagma contrattuale (Cass. 12/4/1988, n. 2876).

Risulta, quindi, pienamente condivisibile l'orientamento espresso dalla citata Cass. n. 474/1994 e ribadito da successive pronunce, secondo cui, venuto meno il contratto per cui il mutuo è concesso in seguito alla intervenuta risoluzione consensuale della compravendita dei beni, il mutuante (finanziaria) sia legittimato a richiedere la restituzione della somma mutuata non al mutuatario (acquirente), ma direttamente ed esclusivamente al venditore, che rispetto al mutuo appare terzo, ma che del mutuo in sostanza beneficia (Cass. 23/4/2001 n. 5966).

Infatti, nell'ambito della funzione complessiva dei negozi collegati, essendo lo scopo del mutuo legato alla compravendita, in quanto la somma concessa in mutuo viene destinata al pagamento del prezzo, venuta meno la compravendita, il mutuo non ha più ragione d'essere.

Il soggetto che in via definitiva beneficia della somma concessa in mutuo, non è il mutuatario (acquirente), ma il venditore dei beni, che rispetto al mutuo è terzo.

Il mutuatario (acquirente), il quale impiega la somma secondo la destinazione prevista in contratto, sostanzialmente non ricava alcun vantaggio, perché non consegue la proprietà dell'oggetto per il cui pagamento il mutuo gli viene concesso. In difetto del sinallagma della fattispecie complessiva risultante dal collegamento negoziale, il venditore, che riceve la somma mutuata, sicuramente deve restituirla (Cass. 23/4/2001 n. 5966).

Nel caso di specie, dunque, la (finanziaria) Spa non può pretendere dall’acquirente-consumatore il pagamento delle rate del mutuo finalizzato all’acquisto di beni che non sono mai stati consegnati, bensì deve, per quanto sopra eccepito, chiedere alla Snc (venditore) la restituzione delle somme che quest’ultima ha incassato senza avere consegnato la merce.

Tuttavia, la finanziaria preferisce agire giudizialmente nei confronti dei malcapitati consumatori (contro i quali è fin troppo semplice porre in essere illegittime quanto scorrette strategie processuali), piuttosto che contro il venditore, anche e soprattutto perché, essendo la Snc venditore in stato di fallimento (all. 7), dovrebbe accontentarsi del pagamento dei crediti in moneta fallimentare, e quindi in misura notevolmente ridotta.

3) Domanda riconvenzionale. Per le considerazioni innanzi svolte, la finanziaria è tenuta a restituire al Sig. _______ la somma di euro 515,32 da quest’ultimo indebitamente versata (all. 8) quale prima rata del finanziamento sottoscritto: la risoluzione, infatti, ha efficacia retroattiva (art. 1458 cc), il che significa che non soltanto il contratto risolto non produce più effetti per l’avvenire, ma che pure le prestazioni già eseguite ex uno latere devono essere restituite. Pertanto, con il presente atto, l’opponente spiega formalmente domanda riconvenzionale intesa ad ottenere la restituzione della somma di euro 515, 32 indebitamente versata.

4) Per tutto quanto sopra esposto, ed in considerazione del comportamento palesemente scorretto dimostrato dalla finanziaria, l’opponente promuove domanda per lite temeraria ex art. 96 cpc, specificando che i danni di cui si chiede il risarcimento derivano dal dolo o dalla colpa grave consistente nell’avere omesso quel minimo di diligenza che avrebbe dovuto fare ritenere infondata la propria pretesa (Cfr. Trib. Bologna 27/01/2005). Infatti, incorre in colpa grave chi ha agito o insistito in una pretesa coscientemente infondata, ossia senza il minimo esame della giustezza e ragionevolezza della pretesa (Cass. 83/1973); la temerarietà della lite, pertanto, deve essere ravvisata nella coscienza dell’infondatezza della domanda o eccezione (mala fede), o nella carenza della normale diligenza volta all’acquisizione di detta coscienza (colpa grave) (Cass. 3/6/83 n. 3799; Cass. 23/5/1990 n. 4651; Cass. 27/9/1994 n. 7101; Cass. 21/7/2000 n. 9579; Cass. 8/1/2003 n. 73).

Presupposti per la condanna al risarcimento del danno a titolo di responsabilità processuale aggravata per lite temeraria, ai sensi dell’art. 96 cpc sono, oltre alla totale soccombenza, il danno della controparte e quel particolare stato soggettivo integrato almeno dalla colpa grave (Cass. Sez. Un. 30/9/1989 n. 3948; Cass. 18/2/1994 n. 1592).

Quanto alla prova ed alla quantificazione di tale danno, la Suprema Corte ha stabilito che non è neppure necessario che l’interessato deduca e dimostri uno specifico danno, potendo il Giudice desumere detto danno da nozioni di comune esperienza (Cass. 3/8/2001 n. 10731; Cass. 5/5/2003 n. 6796) e fare riferimento anche al pregiudizio che la parte resistente abbia subito di per sé, per essere stata costretta a reagire all’iniziativa del tutto ingiustificata e scorretta dell’avversario e spesso senza che ciò possa essere adeguatamente compensato, sul piano strettamente economico, dal rimborso delle spese processuali (Cass. 18/2/1994 n. 1592).

Per tutto quanto sopra esposto, e con ogni più ampia riserva di meglio aggiungere, variare e provare, anche all’esito delle eccezioni e deduzioni di controparte, l’opponente, come in atti rapp.to, difeso e dom.to,

C I T A

La società _____________ SpA, in persona del legale rappresentante pt, con sede in ____, rapp.ta e difesa dall’avv. ____________, con studio in Prato alla via ________, a comparire dinanzi al Tribunale di Prato, all’udienza del giorno _________, locali soliti, ore di rito col prosieguo, per ivi sentir accogliere le seguenti

C O N C L U S I O N I

Voglia l’Ill.mo Tribunale adito, respinta ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, in accoglimento dei motivi sopra esposti:

1) In via preliminare, per i motivi di cui in premessa, dichiarare la propria incompetenza territoriale, e, per l’effetto, revocare l’opposto decreto perché invalido o nullo e rimettere le parti dinanzi al competente Tribunale di Salerno;

2) Nel merito, in accoglimento dei motivi sopra esposti, dichiarare l’avvenuta risoluzione dei contratti di compravendita e di mutuo e, per l’effetto, revocare l’opposto decreto perché infondato, ingiusto ed illegittimo;

3) In accoglimento della spiegata domanda riconvenzionale, condannare la Società _______ SpA alla restituzione della somma di euro 515,32 indebitamente corrisposta dal Sig. ________, maggiorata di interessi legali;

4) Condannare la convenuta al pagamento delle spese, diritti ed onorari del presente giudizio, con attribuzione al sottoscritto procuratore anticipante;

5) Condannare l’opposta, che risulta avere agito con mala fede o colpa grave, al risarcimento dei danni ex art. 96 cpc, che si quantificano in euro 2.000,00.

Con riserva di precisare e modificare le conclusioni ex art. 183 c.p.c., si invita la convenuta a costituirsi in giudizio nelle forme stabilite dall’art. 166 cpc almeno 20 giorni prima della fissata udienza, con avvertenza che, in difetto, sarà dichiarata la sua contumacia e che, in tal caso, l'emananda sentenza sarà considerata come emessa in legittimo contraddittorio, e che la costituzione fuori del termine comporterà le decadenze di cui all'art. 167 cpc, per cui non potrà proporre domande riconvenzionali, chiamare terzi in causa, indicare mezzi di prova o produrre documenti.

Al fine del versamento del contributo unificato per le spese di giustizia, si dichiara che il valore della causa è di € 3.111,44.

Si dichiara di voler ricevere gli avvisi di cui agli artt. 133, 134, 176 e 183 cpc al numero di fax _______ e/o all’indirizzo di posta elettronica _____________.

Salerno, 2 Aprile 2007

Avv. Gennaro De Natale




         

venerdì 11 settembre 2009

RICORSO PER EQUA RIPARAZIONE EX LEGGE 89/2001 (LEGGE PINTO)




CORTE D’APPELLO DI NAPOLI

Ricorso ex L. 89/2001

Il Sig. XXXXXXXX, nato a Pollena Trocchia il 00/00/1900 ed ivi residente alla Via Trinità n. 12, cf XXXFFRRRRRRR, rappresentato e difeso dall’avv. Gennaro De Natale, presso il cui studio elettivamente domicilia, in virtù di mandato a margine del presente atto,

C O N T R O

Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pt, domiciliato ex lege in Napoli (80134) alla via Armando Diaz n. 11 presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli.

Il ricorrente, a mezzo del sottoscritto procuratore e difensore, chiede il risarcimento dei danni morali subiti per la durata del processo instaurato innanzi al Tribunale di Salerno – Sezione civile, iscritto al n. RG 0000/98, tutt’ora pendente.

FATTO

Con atto di citazione notificato in data ___________, PINCO PALLINO conveniva dinanzi al Tribunale di Salerno, il Sig. SEMPRONIO, residente in Salerno alla via R. TIZIO n. 218, onde sentire dichiarare la risoluzione del contratto di promessa di vendita stipulato in data 18/08/97, per inadempimento grave e condannare il convenuto al risarcimento dei danni.

Costituitosi regolarmente in giudizio, il Sig. _____________ contestava totalmente la domanda attorea e chiedeva dichiararsi, in via riconvenzionale, l’inadempimento grave dell’attore con conseguente restituzione della caparra e pagamento del doppio a titolo di risarcimento danni, e, inoltre, chiedeva condannarsi l’attore alla rifusione delle spese di straordinaria manutenzione sostenute e alla rifusione dei danni per mancata rivendita dell’immobile.

D I R I T T O

1 Violazione del termine ragionevole di durata del procedimento e responsabilità del Ministero della Giustizia.

Appare totalmente abnorme ed irragionevole la durata del suddetto processo civile, incardinato nel mese di settembre 1998 e tutt’ora pendente dopo 11 anni dal suo inizio. Il ricorrente ha diritto ad ottenere l’equa riparazione dei danni subiti, in quanto la durata del suddetto processo non trova giustificazione né nella complessità della vertenza, né nella condotta delle parti.

Vi è una responsabilità di tipo oggettivo del Ministero resistente, il quale ha violato il termine ragionevole di durata del procedimento in esame. Per attribuire tale forma di responsabilità al Ministero, non occorre provarne la colpa ex art. 2043 cc, ma è sufficiente provare il dato oggettivo del tempo in eccesso trascorso dall’inizio del procedimento.

Il presupposto della responsabilità del Ministero della Giustizia risiede nella violazione del termine di durata del procedimento, che non è rigidamente predeterminata, ma va desunta anche con ricorso ai criteri indicati nell’art. 2 L. 89/2001.

2 Conseguenze pregiudizievoli per la vittima con peculiare riferimento alla natura della controversia.

Tale giudizio ha procurato notevoli danni al ricorrente, sia sotto il profilo economico che morale, con conseguenti notevoli patimenti, oltre agli inevitabili e prolungati disagi causati al normale svolgimento della vita familiare: la particolare natura della causa, infatti, ha comportato non solo notevoli pregiudizi economici, ma soprattutto ansia e patema d’animo. Il danno morale indubbiamente sussiste, poiché non vi è dubbio che la lunga attesa della definizione di un giudizio di notevole rilevanza economica e riguardante un interesse di rilievo determini nell’interessato stanchezza, sfiducia nella giustizia e più in generale nelle istituzioni, senso di impotenza e quindi in definitiva uno stato d’animo negativo, che è suscettibile di ristoro in termini di danno morale.

3 An debeatur della domanda di equa riparazione. Il processo civile oggetto del presente giudizio, non è stato conforme all’art. 6 par. 1 della CEDU, con specifico riferimento al termine ragionevole di durata, essendo stata minima l’attività istruttoria espletata e non essendovi stato alcun comportamento dell’attore, odierno ricorrente, che abbia potuto ritardare il corso del processo.

Il caso non era complesso: il giudice adito avrebbe dovuto semplicemente ascoltare i testi e verificare la relazione del CTU, attività per le quali non era necessario il decorso di 11 anni. In ogni caso, il giudizio è tutt’ora pendente.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, conformemente ai principi elaborati in materia dalla Corte di Strasburgo, hanno precisato che, allorquando venga accertata la violazione del termine ragionevole di durata del procedimento, il danno non patrimoniale deve presumersi esistente, a meno che, per la particolarità della fattispecie, possa rivelarsi inesistente.

Inoltre, codesta Ecc.ma Corte ha ritenuto che è indubbio che la lunga attesa della definizione di un qualsiasi giudizio determini nel cittadino stanchezza, sfiducia nella giustizia e più in genere nelle istituzioni, senso di impotenza e, quindi, in definitiva uno stato d'animo negativo suscettibile di ristoro in termini di danno morale ai sensi del disposto di cui all'art. 2 comma 1 della l. n. 89 del 2001, da liquidarsi in via equitativa (Corte appello Napoli, 13 dicembre 2001).
4 Determinazione del quantum della domanda per l’equa riparazione.
Il ricorrente, richiamati i parametri della giurisprudenza della CEDU, chiede a titolo di equa riparazione un risarcimento per danno morale (non patrimoniale) di euro 00.000,00 (___________________/00), per le seguenti considerazioni.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con le sentenze n. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 26 gennaio 2004, ha stabilito che i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, anche se questi può discostarsi in misura ragionevole dalle liquidazioni effettuate a Strasburgo in casi simili: la liquidazione del danno non patrimoniale effettuata dalla Corte d’appello a norma dell’art. 2 della legge n. 89/2001, pur conservando la sua natura equitativa, è tenuta a muoversi entro un ambito che è definito dal diritto, perché deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo, da cui è consentito discostarsi purché in misura ragionevole (Ved. anche Cass. 20235/2004). Orbene, poiché la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, una volta superato il limite della ragionevolezza, considera ai fini della liquidazione l’intera durata del procedimento, si ritiene equo quantificare la somma richiesta in euro 1.000,00/1.500,00 per ogni anno di durata (11 anni x euro 1.500,00).

Per tutto quanto sopra esposto, si chiede che l'Ecc.ma Corte, respinta ogni contraria domanda, eccezione e deduzione, voglia accogliere le seguenti

C O N C L U S I O N I

1) Accertare e dichiarare la violazione, da parte del Ministero della Giustizia convenuto, dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e, conseguentemente, accertare e dichiarare il diritto dell’odierno ricorrente ad ottenere un’equa riparazione secondo quanto stabilito dall’art. 2 della L. 89/2001;

2) Per l’effetto, condannare il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pt, al risarcimento integrale dei danni subiti, quantificati in euro ___________, o in subordine, in quella diversa misura, maggiore o minore, che codesta Ecc.ma Corte di Appello riterrà equa e giusta;

3) Condannare il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pt, al pagamento delle spese e competenze del presente giudizio, con attribuzione al sottoscritto procuratore anticipante.

Il ricorrente allega le copie degli atti processuali in carta libera, come da indice in calce al presente ricorso; in caso di contestazione della conformità degli atti processuali, chiede fin d’ora, ai sensi dell’art. 35° L. 89/2001, che l’Ecc.ma Corte adita disponga l’acquisizione in tutto o in parte degli atti e dei documenti del procedimento, senza alcun onere per il ricorrente.

Con espressa riserva di depositare memorie integrative e documenti sino al giorno dell’udienza.

Si depositano, tutti in semplice copia fotostatica: 1) Atto di Citazione; 2) Verbali del giudizio.

Napoli, data del deposito

avv. Gennaro De Natale

MEMORIA INTEGRATIVA FINALE NEL GIUDIZIO DI EQUA RIPARAZIONE




CORTE D’APPELLO DI NAPOLI

Memoria integrativa

Per ______________, con l’avv. Gennaro De Natale.

C O N T R O

Ministero della Giustizia, con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli.

D I R I T T O

1 Violazione del termine ragionevole di durata del procedimento e responsabilità del Ministero della Giustizia.


La durata del suddetto processo, per i motivi indicati nel ricorso introduttivo, è abnorme ed irragionevole. Il ricorrente ha diritto ad ottenere l’equa riparazione dei danni subiti, in quanto la durata del suddetto processo non trova giustificazione né nella complessità della vertenza né nella condotta delle parti.

La Suprema Corte ha più volte ribadito che l’azione tendente ad ottenere l’equa riparazione è di natura indennitaria e non risarcitoria: ai sensi della L. 89/2001, il diritto ad un’equa riparazione avente carattere indennitario e non risarcitorio, non richiede l’accertamento di un illecito, né presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente: esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (d’ora innanzi CEDU), cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole (Cass. 22/10/2002 n. 14885).

Inoltre, la funzione risarcitoria del danno per il mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo si distacca dallo schema del risarcimento da fatto illecito, e deve essere correttamente ricondotta nell’ambito delle fattispecie indennitarie compensative di danni prodotti nell’esercizio di attività lecite (Cass. 18/3/2003 n. 3973).


Dall’esame di tali pronunce emerge una responsabilità di tipo oggettivo del Ministero resistente, il quale ha violato il termine ragionevole di durata del procedimento in esame. Da quanto esposto ne discende che per attribuire tale forma di responsabilità al Ministero, non occorre provarne la colpa ex art. 2043 cc, ma è sufficiente provare il dato oggettivo del tempo in eccesso trascorso dall’inizio del procedimento.


Il presupposto della responsabilità del Ministero della Giustizia risiede nella violazione del termine di durata del procedimento, che non è rigidamente predeterminata, ma va desunta anche con ricorso ai criteri indicati nell’art. 2 L. 89/2001.

Tuttavia, il temperamento attingibile dai suddetti criteri non giustifica una radicale sterilizzazione del dato temporale. Infatti, anche le cause complesse e quelle in cui le parti abbiano tenuto un comportamento defatigatorio soggiacciono alla norma che ne impone la definizione in un tempo ragionevole, in quanto, secondo un principio enunciato dalle Sezioni Unite, il giudice deve fare fronte alla complessità del caso con un più risoluto ed incisivo impegno, ed al comportamento defatigatorio delle parti con l'attivazione dei rimedi all'uopo previsti dal codice di rito civile. Dunque, il dato fondamentale da assumere a base dell'accertamento della violazione è quello, di natura oggettiva, costituito dalla durata del processo, sul quale possono incidere i criteri indicati nell'art. 2, comma 1, cit., senza peraltro eliminare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass. n. 8600/2005; Cass. SS. UU., n. 1338 del 2004).


In particolare, nel caso in esame, è doveroso sottolineare che:


A) Ai fini della responsabilità dello Stato, il criterio della durata massima del procedimento si deve armonizzare con un metro di scansione temporale interna del procedimento che fissa in tre mesi la lunghezza del rinvio ragionevole (Corte appello Firenze, 25 gennaio 2002), mentre invece, nel caso in questione, la media della lunghezza dei rinvii è stata ampiamente superata;


B) a proposito, poi, dei rinvii che, nell’ambito del processo in esame, siano stati chiesti dalle parti, è necessario evidenziare che, in tema di valutazione della ragionevole durata del processo, non tutto il lasso di tempo intercorso tra una udienza e l’altra può essere imputato al comportamento della parte che abbia chiesto il rinvio, dovendo il giudice adito in sede di equa riparazione verificare se l’entità del rinvio sia ascrivibile anche a concorrenti cause dell’organizzazione giudiziaria (Cass. 30/03/2005 n. 6713; Cass. 7/2/2004 n. 6856), come avvenuto nella fattispecie in esame. In ogni caso, i rinvii chiesti dalle parti non hanno certamente contribuito a rendere irragionevole la durata del processo oggetto del presente giudizio;


C) Infine, va ascritta al sistema giudiziario nel suo complesso, la concessione di rinvii con intervalli concreti anche cospicui; il tempo decorso per rinvii d’ufficio e per gli aggiornamenti dell’udienza connessi allo svolgimento di attività istruttorie; le pause dovute ad adempimenti referendari ed elettorali; gli intervalli per scoperture dell’organico del personale negli uffici; i periodi di ferie.


In definitiva, nel caso in esame, il ritardo del procedimento può addebitarsi all’apparato giudiziario. Infatti, a prescindere dalle esigenze dei rinvii di causa, basti rilevare che l’art. 175 cpc impone al giudice istruttore di esercitare tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento, e l’art. 81 disp. att. Cpc stabilisce che i rinvii da una udienza all’altra non dovrebbero superare i 15 gg., a meno che non vi siano delle giustificate esigenze.


L’obbligo assunto a livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione impegna lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni, concorrere all’adempimento di tale obbligo (Sent. CEDU 26/10/88, Martins Moreira c/ Portogallo), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento negligente degli organi giudiziari, ma più in genere per il fatto di non aver provveduto ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole velocità la domanda di giustizia (Sent. CEDU 10/12/92, Boddeart c/ Belgio).


Pertanto, la causa avrebbe potuto durare anche meno del periodo che normalmente viene ritenuto ragionevole per un giudizio di primo grado (in media tre anni) in quanto, nel caso di specie, il processo avrebbe potuto concludersi in non più di tre anni, tenuto conto della minima attività istruttoria espletata e della scarsa complessità del caso.


In ogni caso, la durata del processo non avrebbe dovuto superare, nel suo complesso, il triennio. Dunque, il procedimento civile in questione ha sicuramente superato la soglia della durata ragionevole ex art. 6 paragrafo 1 CEDU.

2 Termine e condizioni di proponibilità del ricorso ai sensi dell’art. 4 L. 89/2001.

Ai sensi degli artt. 133 e 327 cpc ed art. 1 L. 7/10/1969 n. 742, la decisione non è ancora divenuta definitiva e, pertanto, il termine di decadenza di cui all’art. 4 L. 89/2001 non è ancora spirato. Il presente ricorso risulta, quindi, proposto tempestivamente. In tal senso, del resto, si è espressa anche la Suprema Corte con sentenza n. 11231 del 18/07/2003, la quale ha appunto affermato che "ai fini della condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione ex art. 4 L. 89/2001, sussiste la pendenza del procedimento, nel cui ambito la violazione del termine di durata ragionevole si assume verificata, allorché sia stata emessa la relativa sentenza di primo grado e non sia ancora decorso il termine lungo per l'impugnazione". Con ciò rendendosi evidente che, in relazione ai giudizi di cognizione, la domanda di equa riparazione può essere proposta entro il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento della cui ragionevole durata si dubiti (Cass. 29/09/2004 n. 19526).


Inoltre, l'art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, che prevede la sospensione dei termini processuali in periodo feriale, si applica anche al termine di sei mesi previsto dall'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 per la proposizione della domanda di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo. (Cass. 11/03/2009, n. 5895).

3 Conseguenze pregiudizievoli per la vittima con peculiare riferimento alla natura della controversia.

Il giudizio oggetto del presente ricorso ha ad oggetto pagamento somme.

Tale giudizio ha procurato notevoli danni al ricorrente, sia sotto il profilo economico che morale, con conseguenti notevoli patimenti, oltre agli inevitabili e prolungati disagi causati al normale svolgimento della vita familiare: la particolare natura della causa, infatti, ha comportato non solo notevoli pregiudizi economici, ma soprattutto ansia e patema d’animo. Il danno morale indubbiamente sussiste, poiché non vi è dubbio che la lunga attesa della definizione di un giudizio di notevole rilevanza economica e riguardante un interesse di rilievo determini nell’interessato stanchezza, sfiducia nella giustizia e più in generale nelle istituzioni, senso di impotenza e quindi in definitiva uno stato d’animo negativo, che è suscettibile di ristoro in termini di danno morale.

4 An debeatur della domanda di equa riparazione.
Il processo civile oggetto del presente giudizio, non è stato conforme all’art. 6 par. 1 della CEDU, con specifico riferimento al termine ragionevole di durata, essendo stata minima l’attività istruttoria espletata e non essendovi stato alcun comportamento dell’attore, odierno ricorrente, che abbia potuto ritardare il corso del processo.
Il caso non era complesso: il giudice adito avrebbe dovuto semplicemente ascoltare i testi e verificare la relazione del CTU, attività per le quali non era necessario superare il termine di ragionevole durata.

L’istante osserva che la durata ragionevole del processo ex art. 6 CEDU deve essere calcolata, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo grado ed in un anno per ciascuna fase successiva.

L’Ecc.ma Corte adita potrà agevolmente statuire che, in ogni caso, la durata del processo di primo grado non avrebbe dovuto superare il triennio.

L’istante, a causa esclusiva del ritardo del procedimento, e come conseguenza diretta di questo, ha subito una serie di danni risarcibili, di natura non patrimoniale. Risulta evidente il gravissimo pregiudizio morale subito, atteso che la durata del procedimento non ha fatto altro che aggravare le sofferenze psicologiche subite dal ricorrente.

Appare chiaro che, se il procedimento avesse avuto una durata ragionevole, le sofferenze psichiche dell’istante, il patema d’animo e lo stato di assoluta insoddisfazione sarebbero stati del tutto modesti, mentre, al contrario, questi si sono protratti per tutto il corso del procedimento.

A tal proposito, la Suprema Corte ha chiarito che “in caso di non ragionevole durata del processo, ove si richieda il risarcimento del danno non patrimoniale subito, la natura dello stesso rende plausibile sia il suo accertamento mediante il ricorso a presunzioni e a fatti notori, sia la liquidazione con valutazione equitativa, a norma dell’art. 1226 cc, atteso che preoccupazioni, tensioni e disagi della persona fisica non sono suscettibili di una facile dimostrazione diretta che può, dunque, essere desunta anche in via indiretta dalla deduzione dell’insieme delle circostanze di fatto del caso concreto allegate e provate o, comunque, emergenti dagli atti” (Cass. 24/10/2003 n. 16047). Infatti, nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione, la quale riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, conformemente ai principi elaborati in materia dalla Corte di Strasburgo, hanno precisato che, allorquando venga accertata la violazione del termine ragionevole di durata del procedimento, il danno non patrimoniale deve presumersi esistente, a meno che, per la particolarità della fattispecie, possa rivelarsi inesistente.

Inoltre, è stato ritenuto che è indubbio che la lunga attesa della definizione di un qualsiasi giudizio determini nel cittadino stanchezza, sfiducia nella giustizia e più in genere nelle istituzioni, senso di impotenza e, quindi, in definitiva uno stato d'animo negativo suscettibile di ristoro in termini di danno morale ai sensi del disposto di cui all'art. 2 comma 1 della l. n. 89 del 2001, da liquidarsi in via equitativa (Corte appello Napoli, 13 dicembre 2001).

In buona sostanza, una volta accertata la violazione deve, di regola, considerarsi "in re ipsa" la prova del relativo pregiudizio, nel senso che detta violazione comporta nella normalità dei casi anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale (Cass. 16/2/2005 n. 3118).

Pertanto, in assenza di situazioni particolari che si rivelino presenti nel singolo caso concreto, il danno non patrimoniale non può essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla durata ragionevole del processo. Tanto anche perché l’equa riparazione riconosciuta dalla legge 89/2001 è un diritto non al risarcimento del danno, ma un indennizzo: di conseguenza, rimane irrilevante ogni eventuale riferimento all’elemento soggettivo della responsabilità (Cass. Sez. Un. 27/11/2003-26/01/2004 n. 1339).

Inoltre, ai fini del riconoscimento del diritto all’equa riparazione, la parte privata ricorrente non deve provare il danno morale, trattandosi di conseguenze che normalmente si verificano secondo l’id quod plerumque accidit (Cass. 29/03-11/05/2004 n. 8896): una volta accertata la sussistenza della violazione del termine di ragionevole durata del processo, la parte che assume di aver subito un danno non patrimoniale in conseguenza della eccessiva durata del processo, non è tenuta a fornire specifica prova dello stesso, atteso che, secondo la CEDU, il danno non patrimoniale (da identificarsi col patema d’animo, con l’ansia, con la sofferenza morale causate dall’esorbitante attesa della decisione), a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e cioè di regola per effetto della violazione della durata ragionevole del processo, per cui deve ritenersi presente secondo l’id quod plerumque accidit senza bisogno di alcun sostegno probatorio (Cass. 12/08/2005 n. 16885).

In definitiva, il riconoscimento del processo come causa di ansia, di stress e di dispendio di tempo ed energie suscettibile di dar luogo al risarcimento delle parti che lo abbiano irragionevolmente subito è da ritenere principio d’ordine costituzionale immediatamente precettivo (Ved. Cass. Sez. Un. 23/12/2005 n. 28507).

E ancora, secondo i giudici di Cassazione l’esito sfavorevole della lite non esclude il diritto all’equa riparazione per il ritardo se non nei casi in cui sia ravvisabile un vero e proprio abuso del processo, configurabile allorquando risulti che il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, con tattiche processuali di varia natura.

Siffatti principi, secondo la giurisprudenza della CEDU valgono anche per le persone giuridiche e, più in generale, per i soggetti collettivi, per i quali il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, non diversamente da quanto avviene per le persone fisiche, si pone quale conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione CEDU, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri (Cass. 3396/2005; Cass. 13504/2004; Cass. 13163/2004; Cass. 15093/2004).

La L. 89/2001 si applica anche al procedimento esecutivo: in tal caso, ai fini della determinazione della ragionevole durata, si deve accertare quando il diritto azionato ha trovato effettiva realizzazione (Cass. 26/7/2002 n. 11046).

Frazioni di anno. Secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte vanno risarciti anche i ritardi relativi alle frazioni di anno (Cass. n. 14/08; Ord. Cass. n. 2331 del 31/01/08; Cass. n. 29543 del 12/12/08.

5 Determinazione del quantum della domanda per l’equa riparazione.
Il ricorrente, richiamati i parametri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, chiede a titolo di equa riparazione un risarcimento per danno morale (non patrimoniale) nella misura che codesta Ecc.ma Corte di Appello riterrà equa e giusta.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con le sentenze n. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 26 gennaio 2004, ha stabilito che i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, anche se questi può discostarsi in misura ragionevole dalle liquidazioni effettuate a Strasburgo in casi simili: la liquidazione del danno non patrimoniale effettuata dalla Corte d’appello a norma dell’art. 2 della legge n. 89/2001, pur conservando la sua natura equitativa, è tenuta a muoversi entro un ambito che è definito dal diritto, perché deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo, da cui è consentito discostarsi purché in misura ragionevole (Ved. anche Cass. 20235/2004).

Per tutto quanto sopra esposto, si chiede che l'Ecc.ma Corte adita, respinta ogni contraria domanda, eccezione e deduzione, voglia accogliere le conclusioni rassegnate nell’atto introduttivo.
Napoli,

Avv. Gennaro De Natale